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Rassegna critica sui libri scritti da Michele Fabbri o a lui attribuiti


Michele Fabbri, di Forlì, mi chiede un parere sul suo “Trobar clus” (Fermenti). Scrive nella sua lettera: "I1 libro che ho pubblicato è influenzato dai miei studi sulla letteratura medievale, ed evidenzia certi miei interessi culturali legati all'esoterismo cataro e ad autori tradizionalisti. I1 mio retroterra culturale, infatti, è nutrito anche di letture inconsuete che sono al di fuori dei percorsi della cultura ufficia1e". La raccolta di Fabbri possiede la cifra del cammino, della ricerca, soprattutto sul piano della lingua e dello stile. Si tratta di un lavoro in fieri, migliore quando lo studioso si fa da parte lasciando più spazio al poeta. Davide Rondoni osserva nella prefazione la "mistura di canto e di dura ironia" presente in queste poesie, sottolinea che il "canto qui è faticoso, non è agevolato da una facile cura musaica dei versi", ma aggiunge anche che questa "faticosità è morale oltre che formale". Condivido in pieno le osservazioni di Rondoni, che mettono in evidenza le componenti forti di un discorso poetico destinato a crescere.

L'organo della cattedrale di Chartres

Ed è tutta
un fremito di pietra
la cattedrale
che danza al ruggito
della selva di canne.
Con possente, smagliante
pienezza il respiro
dell'organo intreccia
melodie paranoiche,
sconvolte nei meandri del labirinto

Roberto Carifi
Poesia n.137 – 2000

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Il Trobar clus di Michele Fabbri

Piaccia o no, ogni poeta, ogni vero poeta è, in qualche modo, un “figlio di Ermete”. Come tale, egli ha a che fare con infiniti spettri di sonorità e colori, con ritmi segreti che covano assopiti nell’animo del demiurgo. Da questa pietra nera, da sgrossare pazientemente, e poi da lavorare e lavorare ancora, si effonde infine una materia plastica, animata d’etere e luminosità: la poesia. “Poetare è creare”, sussurrava Novalis. E non v’è poeta che non sia autore di nuove costellazioni e d’infiniti mondi e modi d’essere. Lungo il misterioso cammino nelle cui segrete il piombo, silenziosamente, va trasmutandosi in oro, è possibile inciampare in esperimenti indecifrabili e suadenti. In figure e momenti in cui la pietra è ancora grezza, ma già s’affaccia la promessa della trasfigurazione degli elementi. È questo il caso del Trobar clus di Michele Fabbri. Poeta (?) esordiente e demiurgo in pectore, Fabbri mescola audacemente cortei di suggestioni esoteriche tinte di medioevo (L’organo della cattedrale di Chartres, tra tutte) ad una spigolosa ironia che rende il canto, già faticoso, distonico e frammentato. C’è un deserto da attraversare (Atto meditativo), e l’autore si incammina con rassegnato coraggio lungo strade di “luce astratta/di soli freddi” (Kali-yuga); strade appena punteggiate di cespugli di storia e di vita (Domande degli sconfitti, In lode della donna mia). Le sole oasi raggiungibili, isole di verde nel deserto aggredito dal viandante, sono rappresentate dai lampeggiamenti dell’aspirante trovatore, del cataro che oscilla tra convenensa e consolamentum (Confine, Anima symphonialis, Nostra Signora). E se la musica risulta sacrificata sull’altare dell’immagine e dell’ansia del dire (tutto), non per questo la rottura di livello – che, ci si augura, dovrebbe tener dietro al Kyrie eleison che si libra sulle tracce della Profezia di un “eterno delirio evemeristico” – è di là da venire. Allora, con essa, verrà anche la melodia.
Alessandro Giuli
Area, n.51 ottobre 2000


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Michele Fabbri (Forlì)

Trobar clus” (Fermenti 1999), silloge d’esordio di Fabbri, ci precipitain una pirotecnia lessicale abbagliante. Emerge chiaramente il campo culturale prediletto dall’autore (la storia medievale e la filologia mediolatina), abile giocoliere di parole, divertente forse suo malgrado, sembra riecheggiare il dramma di Jorge, il bibliotecario de “Il nome della rosa”: “Aristotele ha mai scritto un libro sulla Commedia?” nel dubbio Fabbri lavora di cesello per raccontarci le sue storie, tanto sue da non disdegnare l’autoreferenzialità: “Fabbri, guerriero di Shambhala” - e ancora – “Michele, all’abbandono di coscienza egoica prepara l’anima”. In agguato: compiacimento e ridondanza. Ma soprattutto un’alterna attenzione per la metrica. Si impone una scelta fra l’adesione alla metrica e il verso sciolto.

Storie n.41 – 2001 (la recenseide)


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MICHELE FABBRI – Trobar Clus, Ed. Fermenti, Collana Iride, 1999

Il titolo della plaquette idealmente fa eco alle letterature romanze e di queste si respirano le atmosfere rarefatte e pur così sensorialmente percepibili nelle raffigurazioni di visioni e vissuti esistenziali, che sfumano in canti dall’ironica vis espressiva (“Qui c’è coscienza di luogo / non di esistenza / se ti cerchi uno sfogo / c,è il rischio di scoprire la demenza. daApprossimazioni, pag. 21). L’apparato lessicale, di matrice umanistica, restituisce al lettore lo sforzo intellettuale, spesso formalmente ben tratteggiato, dell’uomo che, talvolta delirante, tenta di svelare il mistero del mondo della verità, della conoscenza del bene e del male (“Sprofondata nella terra / con radici di quercia, / l’esperienza / in proiezione d’inesauribile / vegetante coscienza” da Confine, pag.14).

Carmen Bochicchio
HYRIA n.89-90 2000/2001


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Ora poiché l'autore si è spontaneamente avvicinato ad una poetica che ha il sapore di una stemperata, moderna Arcadia, il suo primo libro di poesia, «Trobar clus», ci appare (così come appare al prefatore Davide Rondoni) veramente una mistura di canto e di dura ironia». Michele Fabbri, forlivese con radici in Val Montone, è laureato in Storia ed è uno studioso di letteratura medievale. Proprio da queste due interdipendenti discipline è scaturito, certamente 'di getto', il «Trobar clus». Vi si incontrano infatti potenti eccitamenti alla sacralità, al misticismo, all'ascolto della ragioni degli sconfitti della storia, compresi coloro che non sono assolti dalla morale. Nessun furore religioso, dunque, nessun fondamentalismo anche se, come scrive ancora Davide Rondoni, questa sua poesia «è una vicenda di vita o di morte». A me basta, a riscaldarsi l'anima, il calore che emanano i pochi versi del «Santuario della Verna»: «In linfa, di alberi / lungo un sentiero / di pietra. / Le orecchie / vezzeggiate da melismi / di versetti alleluiatici». Quando scrisse «Trobar clus» gli interessi culturali di Michele Fabbri erano ancora fortemente legati ad altri elementi del suo retroterra culturale e cioè, com'egli confessa, connaturati «al di fuori dei percorsi della cultura ufficiale» tra cui possiamo distinguere un'intensa attrazione per l'esoterismo cataro e certe affinità con una folta schiera di autori tradizionalisti. Tutto ciò è vero, ma ciò non toglie nulla alla spontaneità ed alla freschezza della sua poesia poiché egli 'sente' e interpreta la multiforme civiltà medievale come una propedeutica alla vita. Al contrario dell'uomo moderno che, fiero della propria presunta superiorità ed entusiasta del benessere materiale e della scienza, deride le fedi, le esaltazioni mistiche, i cataclismi inficiati di romanticismo, le forze del vivere; egli cerca di stimolare la stoica grandezza dell'animo umano. Comunque sia, questa sua «mistura di canto e di ironia» ha fatto veramente colpo. Alcuni testi sono stati infatti selezionati in antologie ed hanno ricevuto l'apprezzamento di Roberto Carifi (di lui è uscita una recensione nella rivista «Poesia»), Elena Landoni, Giorgio Bàrberi Squarotti, Mariella Bettarini, Franco Cardini, Gio Ferri, Guido Zavarone, Silvana Folliero, Giuseppe Pontiggia, Alberto Cappi, Massimo Scrignòli, Maura Del Serra, Giovanna Bemporad ed altri.
Voglio, per ultimo, riportare una sua poesia da me particolarmente apprezzata:

Anima symphonialis

Dallo sprofondo
del nulla un’onda
di luce affiora
sul volto: dispiego
canti di giubilo alle danze
dei corpi celesti, nell’aurora
edificante di gioiose contemplazioni.


Luciano Foglietta
La Piê, n.4 – 2001







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Estro lirico e sintesi espressiva
La poesia di Michele Fabbri

Michele Fabbri è un giovane forlivese studioso di letteratura medievale. Da pochi anni si dedica attivamente alla poesia ed è un buon esempio di come si possa efficacemente fondere il lavoro dello studioso con l’estro lirico, in un risultato di convincente sintesi espressiva. Ha pubblicato due libri di poesia, Trobar clus (Fermenti, 1999) e il recentissimo Arcadia (I1 Ponte Vecchio, 2001). La sua prima raccolta rivela già una promettente cifra stilistica, nonostante i1 denso retroterra culturale renda l’architettura formale dei testi non immediatamente scomponibile. Davide Rondoni, nella prefazione a1 volume, afferma “è un canto ‘nonostante’ tutto: la sua faticosità è morale oltre che formale”, evidenziando questa difficile ma possibile sintesi tra contenitore linguistico e nucleo tematico. Eppure non c’è mai erudizione né compiacimento retorico in questi versi che, proprio nella loro sorprendente “cantabilità”, raggiungono un risultato di freschezza creativa, soprattutto in quei componimenti più brevi e concentrati, che delimitano efficacemente un campo meditativo (“sprofondata nella terra/con radici di quercia,/1′esperienza in proiezione d’inesauribile/vegetante coscienza”. Il bagaglio dell’officina linguistica medievale, con i suoi bestiari e i suoi enigmatici topoi, disegna un tessuto di rimandi simbolici che Fabbri sa comunque incastonare con accorto equilibrio di toni e con attitudine ironica. Il trobar c1us, l’elaborata soglia dell’impianto retorico, si rivela allora come la punta di iceberg per tesori sommersi. La ricerca formale, giostrata su questo ben specifico recinto semantico, riesce infatti a non confondere artificio con autentica ispirazione, consentendo un’istintiva piacevolezza di lettura. Nella sua ultima, agile raccolta, il discorso poetico di Fabbri si confronta invece con il richiamo dell’essenzialità agreste e con il genere giapponese degli haiku. Questo modello espressivo, ormai ampiamente diffuso anche nel repertorio lirico occidentale (con 1e inevitabili deroghe al prototipo originario) è costituito dai canonici tre versi 5-7-5 che consentono una fulminea incisività delle immagini, riferite generalmente a dati naturalistici. I testi di Fabbri, il cui tema è appunto “bucolico” (i1 sottotitolo della raccolta è Carmi bucolici per la Romagna-Toscana) riescono a produrre sensazioni liriche di levigata nitidezza, e i numerosissimi haiku della raccolta sembrano quasi connotarsi come dediche affettuose alla creaturalità animale e naturale di un ambiente contemplato nella sua potenzialità evocatrice di significati profondi. Le pennellate visive che compongono la tavolozza lirica di Fabbri, racchiuse in un lampo di osservazione non divagante, sembrano dare definizione a una realtà non comunque contraffatta, non mimetizzata, seppure il dato idilliaco e nostalgico sia un elemento costante della raccolta. Accanto a questi haiku l’autore ci offre anche sonetti e altre forme compositive per testi racchiusi in moduli
classici, ma rielaborati modernamente secondo un’interiore tensione allo scandaglio metafisico della cifra enigmatica delle cose. Da queste due prove poetiche, apparentemente diverse per temi e schemi formali ma contigue nelle finalità espressive, appare evidente come Fabbri voglia esplorare quel confine tra natura e artificio, tra istinto e costruzione, terra di nessuno che sottende e riassume le opposte istanze. L’urto fra le due contrapposizioni pare infine affievolirsi nella consapevolezza di questo libero fluire della polarità vitale. I testi qui presentati sono tratti da
Arcadia:

Haiku per il lupo

Aria che taglia,
rimescolìo del sangue:
lupo che ulula.

Haiku per la vipera

Vipera lenta
elabora le trame
di erba sinuosa.

Haiku per ìl suono del vento nella foresta

Volta celeste
solfeggia fra gli abeti:
plettri del vento.

Haiku per il temporale

Lucido il lampo
balena illuminando
grumi di nuvole.

La festa dei Morti

Poi quella notte vennero i morti,
muti, guidati dalla dea Litana,
in quella notte a chiedere conforti,
quando si attraversa la dogana
della vita tra gli alberi contorti
di novembre. Lontano una campana
conduce le anime verso i porti
dei vivi, in mezzo alla nebbia padana.
E per l’orribile regno delle ombre
ci furono tovaglie apparecchiate
perché sedessero alle case sgombre
di vivi, a consumare le approntate
offerte per gli spettri. Si consuma,
quella notte, la morte tra la bruma.

Daniela Monreale
LE VOCI DELLA LUNA
n.19 – 2001


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Arcadia di Michele Fabbri

Lo scrittore forlivese Michele Fabbri, ricercatore in filologia mediolatina all'università di Firenze, è un appassionato cultore di letteratura medievale. Come autore. ha rivolto un'approfondita attenzione alle forme chiuse e ai modelli classici. Nel 1999 ha pubblicato la raccolta di liriche “Trobar clus”, con premessa di Davide Rondoni, Fermenti, Roma: una ventina di testi, molto curati nella forma e talvolta in metrica, con echi medievali e provenzali. L’ultimo volumetto di poesie pubblicate si intitola “Arcadia”, con presentazione di Luciano Foglietta, collana Alma poesis, Il Ponte Vecchio, Cesena. 20001. Queste poesie rievocano il mito arcade, che avrebbe dovuto definire un luogo ideale di vita gaia. idilliaca e del tutto separata dalla realtà, come risulta nel mito dell'antica regione pastorale greca; ma rievocano anche i propositi letterari dell'Accademia romana dell'Arcadia, alla fine del XVII secolo, di diffondere un raffinato linguaggio poetico che fosse, nel contempo. semplice e spontaneo. limpido, vicino ai modelli bucolici greci e all'elegia latina. Fabbri aggiunge una sponda esotica ed orientale a1 suo programma, in quanto è anche un efficace e delicato cultore dell’haiku. Il sentimento della fugacità della vita e il succedersi delle stagioni e delle generazioni, unito al sentimento dell'incombenza della morte e di una presenza svelatrice ed ammonitrice dell'al di 1à sulle cose e sulla vita quotidiana animano questa poetica fatta di rivelazioni, miti, memorie dell'antichità, animazioni ed operazioni di fastose e propizianti archeologie letterarie


Vernice n.19/20 - 2001


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Ricorso alla memoria in “Arcadia” di Michele Fabbri

Diciamolo subito e senza alcuna esitazione. “Arcadia” di Michele Fabbri bello e notevole. Già nel 1999 l’Autore, che vive a Forlì dove è nato nel 1961 , aveva dato alle stampe per i tipi di Fermenti la sua prima raccolta di liriche dandogli per titolo “Trobar clus”. E ciò non stupisce il lettore: trobar clus, che è il poetare in un linguaggio intenso ed elaborato fino all’oscurità, è la forma espressiva propria dei poeti provenzali, di lirici immensi come Marcabruno e Arnaut Daniel, che Michele Fabbri ha approfondito specializzandosi nello studio della letteratura medievale dopo una laurea in Storia. Adesso questo nuovo libro dal titolo ammaliante e sommessamente provocatorio che si compone, quasi nella sua interezza, di haiku. Per ragioni di gusto non abbiamo mai apprezzato i poeti che compongono versi imitando le strutture verbali che non gli appartengono, così riducendo un genere illustre soltanto a meccanica versificazione. Ma Michele Fabbri rappresenta una piacevolissima eccezione, si appropria di un metro giapponese, l’haiku, che ha trovato in Basho il suo più rigoroso e drammatico cantore, e vi riserva suggestioni personalissime, modella una complessa quanto apparentemente semplice tramatura fonetica, mantenendosi in perfetto equilibrio, fino a risemantizzare nel verso l’icasticità di una sofferta macerazione interiore. La bellezza di queste liriche risiede nel loro spirito: esse sono volutamente attardate, così distanti dalle correnti decostruzioni linguistiche che infine appaino scontrosamente moderne. Luciano Foglietta, prefacendo il libro, ci suggerisce il tema della “cancellatura” e del ricorso alla memoria, fino all’attrazione per un tempo remoto e primitivo. Ma questa poesia, e vorremmo qui dissentire con Foglietta, non ci pare vagheggiamento del passato in quanto il canto della tradizione alla fine appare con un motivo incidentale, e anzi l’antichità che erroneamente la nostra tradizione scolastica ci ha mostrato come barbara è speculare ad un giudizio intellettuale compiacente e tollerante. Da qui il recupero: la poesia mantiene un timbro umbratile e bucolico in funzione non adornativa ma progressiva, dunque culturalmente evolutiva. Il tema della cancellatura, di notevole interesse, ci riporta alla memoria una bella frase di Beckett, nel suo saggio su Proust, e che vorremmo estendere all’opera di Fabbri: ”La tendenza artistica non è espansione ma contrazione, e l’arte è l’apoteosi della solitudine”. In questa composita Arcadia l’haiku si manifesta appunto come contrazione, decantamento stornato, serrata locuzione (si legga per tutti l’haiku per il cinghiale. “Scruta grifagno il muso di cinghiale: occhio sospetto”) dove anche i1 silenzio, il rimanente biancore del foglio, è forma di comunicazione. Insomma una poesia matura e compiuta, degna di plauso e meritevole di accurate letture.

Beniamino Biondi

IL CONVIVIO n.11 – 2002


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Michele Fabbri, poesie "Trobar clus", Fermenti, Roma 1999

Poesia non facilissima quella di Fabbri, ma sicuramente il suo primo desiderio è stato proprio quello di costringere il lettore a portarsi prima sul suo terreno colto e importantissimo di studioso di letteratura medievale e ad essere colpito poi della profondità delle proprie espressioni. L'insieme che scaturisce, fra uso di termini non d'uso corrente e la ritmica "epicale", è buono, ma l'autore, giovanissimo, deve non correre il rischio di produrre
poesia ad esclusivo uso e consumo. Ha indubbie doti e preparazione. A confronto due poesie dello stesso volume: "Anima symphonialis" "Dallo sprofondo / del nulla un'onda / di luce affiora sul volto: dispiego/ canti di giubilo alle danze / dei corpi celesti nell'aurora /edificante di gioiose contemplazioni'. "Ultime volontà": "E infine potessi / avere / il coraggio/ sovrumano/ di preferire /i neumi del Dies / irae alle rassicuranti / note di Arvo Part".

Moreno Botti
Il Tizzone n.2 – 2002


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Michele Fabbri, Apocalisse 23, Società Editrice Il Ponte Vecchio, Cesena 2003

Questo volumetto di liriche, inserito nella collana "Alma poesis" - Poeti della Romagna contemporanea, si presenta, in controtendenza, introdotto da un brano dell'Apocalisse. Dal vaglio negativo dei problemi di natura esistenziale, l'Autore giunge ad un'impietosa presa d'atto del senso dell'Essere, del-dolore umano e della nullità delle cose. E' un messaggio, trasmesso al lettore con fine ricerca linguistica e apprezzabile stile letterario, che si colloca come testimonianza. pur se negativa, del nostro tempo. Partendo dall'interpretazione delle antinomie storiche, passate al vaglio del complesso mondo dello spirito, l'Autore compie un'autoanalisi della coscienza, una ricerca del senso dell'Essere, con riflessioni negative sulla problematicità dei suoi esiti. C'è un senso di protesta sociale in quest'atto di sfiducia verso la vita, una impietosa testimonianza del conflitto interiore che la società di oggi genera, un messaggio permeato di dolore e di amarezza, di tristezza e di sofferenza. Inutile cercare in questi versi uno spiraglio di luce, c'è solo la delusione profonda e lo sconcerto del protagonista che si fa trascinare dallo sconforto. dalla diffidenza, dalle frustrazioni, per giungere all' autoflagellazione: "Non voglio ritornare sui miei passi, il nulla che ho vissuto mi è bastato:/lamento solo la presenza/di un futile passaggio inconsistente/ fra queste schiere d'ombra dei miei simili,/intese a non lasciare traccia alcuna". E' un giovane Michele Fabbri. Laureato in storia, ha approfondito 1o studio della letteratura medioevale. Ha già al suo attivo altre pubblicazioni e noi gli auguriamo che possa dare
ancora contributi validi al nostro tempo, fatti anche di analisi critica ma permeati di-speranza e di propositi costruttivi.

Angelo Messina
Il Tizzone n.2 – 2003


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MICHELE FABBRI “APOCALISSE 23”

A esergo di “Apocalisse 23” (Il Ponte Vecchio 2003) ci sono i versetti dell’Antico Testamento: poi vidi un’altra bestia che saliva dalla terra. Ella aveva corna simili a quelle di un agnello, ma parlava come un dragone”. È un canto luciferino, questo di Michele Fabbri, medievalista, adoratore del male. Per l’occasione viene scomodato il mito dell’Ebreo Errante: “Privo di patria vivo senza affetti / imparo tutti i giorni a farne a meno / e vivo nel distacco dagli oggetti”. Appare la visione di una terra rovesciata, dove i rapporti umani sono dissanguati dall’incomprensione, perché si parla una lingua dispersa in mille rivoli (“Grande Babilonia”). Ma di fronte al libro non occorre fare gli scongiuri, né servono esorcismi. Si tratta piuttosto di rivisitare la poesia cortese, quella più mistica e oscura, che per inciso l’autore ha già frequentato ai tempi di “Trobar clus” (1999). L’esoterismo, insomma, l’immaginario infernale e fantastico sono di nutrimento alla retorica poetica. L’iconoclastia si risolve in un esercizio stilistico. Per dirla tutta, messa in terzine anche la “bestia” dell’apocalisse sembra più mansueta. (B.Pe.)

Storie n.50 – 2003


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APOCALISSE 23

Dello scrittore forlivese Michele Fabbri, ricercatore in filologia mediolatina all'università di Firenze, ci eravamo già occupati in Vernice n" 19/20, a pagina 38, in occasione di un commento sul libro di poesie “Arcadia”, edito da Il Ponte vecchio di Cesena. A marzo 2003, sempre presso 1o stesso editore, è uscito l'ultimo suo libro in versi, intitolato “Apocalisse 23”. poemetto che vuole integrare la nota profezia giovannea, inclusa nel nuovo testamento, che fino a ieri arrivava fino al capitolo 22, ed ora, dopo 19 secoli dall'evangelista, trova la sua integrazione ad opera del Nostro. Appare evidente l’intento ironico del gesto. che non è per nulla
sacrilego, perché l’ironia è rivolta non contro il cielo, bensì ritorta contro la terra e, anzi, ancor più giù, trapassa gli inferi, ed è rivolta alla bestia, al principe delle tenebre, che, dopo la morte di dio e più ancora in tempi di "pensiero debole" e di una cultura incapace di concepire 1a sacra visione di dio e di traguardare verso l'eterno, si trova spodestato dal suo ruolo blasfemo, ridotto ad essere un povero diavolo, nevrotico, ansioso, neghittoso, incerto. corroso da mille nevrosi e disgusti. perfino votato al suicidio. Quella di Michele Fabbri è ovviamente un'ironia molto seria, essendo i1 diavolo il secondo specchio dell'uomo (il primo essendo dio), è una parola tenuta sempre ad un passo dalla tragedia e dal buio della disperazione. Ma ciò accade per precisa scelta dell'autore e per volontà di promuovere una rappresentazione teatrale pronunciata dagli alti coturni, e non per altro motivo, disincantato e consapevole essendo l'autore del trionfo della letteratura sulla verità, da cui nasce l'orizzonte e il limite della parola scritta dai poeti. che, evidentemente, non potrà mai arrivare ad essere Verbo. Nulla di nuovo e nulla di meno sulla comprovata perizia di gioco ed esercizio di stile con le forme chiuse. aspetto così ricco e così sostanziale in Michele Fabbri. e di cui già si è abbondantemente detto nella precedente occasione informativa.

Sandro Gros Pietro - Vernice n.24/25 – 2003


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Da dove nasce la poesia di Michele Fabbri? Nasce dal bisogno, molto impellente, di mitizzare la propria terra d'origine e cioè la "enclave" tosco-romagnola e, in particolare, la valle del Montone. È il 1999 quando esce Trobar clus, la raccolta di poesie dove già ci sono tutti i dati caratteristici della sua personalità. Si tratta, come scriveva il prefatore Davide Rondoni, “di una mistura di canto e di dura ironia” e, ancora, di “una vicenda di vita o di morte”. Poi, nel 2001, ecco l'uscita di Arcadia. Facendo sempre riferimento alla sua Romagna Toscana e alla sua particolare cultura, con una “operazione da orafo”, come fa rilevare il critico Roberto Casalini, Fabbri utilizza i metri della grande tradizione lirica dell'Occidente, dalla sestina al sonetto, ma ad essi aggiunge l’haiku accostandosi decisamente ai canti bucolici. Una operazione, questa, in cui il poeta forlivese si sente parte integrante di un mondo già da tempo scomparso, intendendo per "mondo" i valori morali e civili a cui tendevano gli Arcadi nel Sei e Settecento. Egli infatti cerca di tornare ad immergersi nel "pastorale", e cioè in quelle atmosfere che non risentono di squilibri, di sbandamenti, di disordini anche se non sono proprio
in linea con 1o "stato di natura" inteso alla maniera di un Rousseau. Ancora un paio d'anni ed ecco la terza fatica letteraria del Nostro: Apocalisse 23.
Oggi Michele Fabbri è approdato, Oggi Michele Fabbri è approdato, anzi è sprofondato nel più nero pessimismo. Breve, dunque, il lasso di tempo, ma lunghissimo il percorso. Fermi restando i suoi dati caratteristici, e cioè la vivacità della figurazione e gli scatti moralistici. il poeta s'immerge nel mare di pece e zolfo del "terzo segno" dell'Apocalisse di San Giovanni per cui ci tiene
ad aprire la raccolta così: «Poi vidi un'altra bestia che saliva dalla terra: ella aveva le corna simili a quelle di un agnello, ma parlava come un dragone». Così, come il credente alla fine del primo secolo d.C., Fabbri narra infatti gli avvenimenti di oggi come se fossimo agli ultimi giorni del mondo, un mondo in pieno sfacelo. Si tratta di una vera e propria catarsi: «Non si sente più nulla / nell'ora meridiana /dei diavoli che spiano / le mie cattive azioni: / un mondo inconsistente / si svolge intorno a me». Ma dove fuggire poiché intorno a lui tutto è laidume e sospetto? «Offesi gli occhi dalle viste squallide / di una città oscurante e abbandonata, / sparsi i ricordi sopra la gelata, /
e tutto è immerso in atmosfere pallide, / mentre ti spiano, da finestre, callide / menti che prepararono tramata / vendetta». In una poetica così piena di scandagliatori psicologici Fabbri analizza certe conformità caratteriali dell' umanità del XXI secolo e 1o fa alla luce dell'Apocalisse di San Giovanni. Infatti, a proposito della "società di massa", egli così si esprime: «Si espande l'abrasione del cervello / e dei tossici il gregge allucinato / si estende». Pensando, poi, al futuro, c'è da rabbrividire poiché : «È metastasi orrenda la
mia vita. / Da solo mi giunge disturbato, / per grande pena mi sento disperso». Il poeta alla fine giunge a Babilonia e, con lui, anche: «I popoli la seguono: / grande è l’inganno ordito dalla troia. Schifo è il vederla all'occhio dei giusti; / grande furore e menti disastrate».


Luciano Foglietta
La Piê, n. 2 – 2004


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Michele Fabbri: rime (e sonetti) per il museo dell’Apocalisse

L’impiego della rima insieme a ritmi armoniosi riproduce nel testo poetico una serie di equilibri che agevola la lettura di questi versi, così come equivalenti fomiti di evocazione tradizionale e classica. Michele Fabbri conferma così un’efficace e intima riscoperta, concede allo stesso spirito ispirativo tensione e valore di una scrittura che via via riemerge dopo decenni di sfide sperimentali, di immersioni in proprio su un linguaggio poetico-altro, ecc. Così, la cognizione lirica dei versi, chiara denuncia di un proprio principio di istituzione disquisitiva, diviene oasi di una retorica che era appunto scomparsa dal contesto dei movimenti che intendevano spingere più in là l’esperienza inalterata della scrittura in versi. E in tutto il dire (il lavorio dell’intensa testualità) c’è sensibilissima materia per la “lamentazione” e “l’ode”, per i rendiconti di una solitudine mai artefatta e di un discorso (una catarsi privata del “canto”?) continuo dei tormenti dell’io, dell’amore e del colore del mondo, delle fasi “antimoderne” della sua ricerca concisa, grave, naturale, come un’odissea e una preghiera continua alla realtà che attraversa nell’Adesso i punti di fuga della cattura canonica. La moralità speculare è tanta, e ciò che è unitario convoca le parole a farsi senso di una provocazione innovativa piuttosto che commento manicheo in un’area deserta o senza ricordi attivi. È una “melodia dell’aldilà” a conquistare tesi e moniti di cui sono gremiti i versi (non privi di monotonia e tanto meno di tic onomatopeici), ma anche un ludo quotidiano in cui sia il fluente rigenerarsi della vita, sia l’incubo della perdita dell’effimero, segnano contrappunti pensosi non solo fragranti (la rima dentro aiuta una lenta solennità espressionistica) ma drammatici, traumatici, quasi frecce critiche in un contesto di orrenda visualità, e fendenti tutt’altro che vaghi o liristici di cui liberarsi con il quattordicesimo verso, o in quartine assidue e dopotutto mai controverse o soltanto convenzionali. È metastasi orrenda la mia vita./Da solo mi ritiro disturbato,/per grande pena mi sento disperso:/campo d’energia psichica disperso./Sensazioni spaesate: l’irrealtà./Fa spavento il mio vivere sciancato/che teme ogni confronto al mondo ostile,/che scava le trincee dentro se stesso./Un forte mal di testa mi distrugge,/mi rovina i pensieri, mi sbeffeggia,/mi costringe all’assillo di pensare:/il nulla si è dissolto nel mio nulla,/fuori controllo sono i miei pensieri./Tempo maligno che mi crolla addosso. (Il futuro, p. 56) Al senso di compiutezza (e di tardività del metro) si aggiungono un’adeguata percezione della poesia romagnola ottocentesca, un’istanza autobiografica corrispondente all’anelito riflessivo continuo, una rettifica di ciò che Michele Fabbri aveva scorto nelle sillogi precedenti: Trobar clus (1999) e Arcadia (2001). Ma indubbiamente non mancano gli “orientamenti” e le “epifanie” capitali di un’amara voluttà d’urto concettuale, e ciò che di inquietante si svolge nel proprio progetto poetico. Va quindi elusa una privata ed insistente sintomatologia dell’autopunizione, in cui l’immagine dell’Apocalisse è centro non aforistico del conflitto metafisico, disquisitivo, allucinato, e qui denuncia totale dell’esistenza tout-court, nella cui passione riappare una configurazione del primordiale, dove si assestano mostri, eventi del Caos, fra “sereni cieli” e altre idre.

Domenico Cara

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Apocalisse 23

Singolare questo libricino di cinquanta poesie dove il rifiuto categorico del mondo e il senso di schifo nei confronti della vita sono il Leitmotiv di tutta la raccolta. Singolare per due ordini di motivi. In primo luogo perché una prospettiva comunemente considerata patologica viene qui legittimata di fronte alla negatività dell’esistenza («è male questa pianta che respira,/ è male in ogni anelito di vita», da Giardino). In secondo luogo perché questo contemptus mundi viene cantato con una fedeltà alla metrica tradizionale decisamente rara nel panorama poetico contemporaneo – anche se, va detto, almeno un paio di endecasillabi non tornano: «e ho schifo addirittura dei miei adepti» (da Canto di Lucifero) e «ricorda i miei ossessivi e grandi mali» (da Orientamenti).
Il poeta mostra di voler restare chiuso nella propria patologia, nella sua «stanza senza porte» (da Orientamenti), di cui elude ogni possibilità di apertura ad una verticalità che questo disagio sappia sublimare, di modo che i suoi versi si riducano a un mero lamento continuo. È forse un abbandono la causa che sprofonda il poeta in questa chiusura (forse consumata in un manicomio, stando a quanto scrive l’autore), il lutto per la morte dei genitori, che gli rende impossibile ogni evasione verso il mondo: «corpi pesanti i genitori morti/ e lamine metalliche le foglie/ che mi sbattono in faccia. Sono lamine/ di metallo: puniscono il mio volto/ che osa guardare le cose del mondo» (da I genitori). Di detta chiusura sembra un riflesso l’aderenza del dettato poetico ai metri della tradizione: l’endecasillabo (spesso organizzato in sonetti) in primis, ma anche il settenario, il novenario dattilico («si fanno inquinare la mente/ e chiedono solo il suicidio», da Intellettuali) e il decasillabo anapestico («sembra solida, cupa materia:/ malattia che mi prende col vuoto», da Quello che resta). L’utilizzo della forma chiusa, con la sua quasi inevitabile patina arcaizzante, pare altresì funzionale alla volontà del poeta di allontanare la sua voce dal proprio tempo, divaricando l’intercapedine tra un mondo esterno rifiutato e disprezzato («rimango chiuso in casa sempre solo,/ rifiuto ogni contatto con l’esterno», da Beata (?) solitudine) e un io lirico che ostende le sue piaghe, a volte compiacendosi della riluttanza che esse possano suscitare: «la pelle esplode in rosse ulcerazioni» (da Agonia), «alla mia fame vorace soltanto// resti di vomito, mio unico lusso,/ riesco a trovare» (da Orientamenti).
Nel libro viene continuamente riaffermata una prospettiva in cui il poeta risulta slegato dalle cose, prigioniero di un esilio assoluto che lo isola da tutto ciò che lo circonda («non lego con nessuna cosa al mondo», da Distacco), costringendolo però a vivere nel mondo: «io non mi lascio dietro che amarezze/ e vani tentativi d’evasione:/ con la certezza di aver meritato/ l’ergastolo terreno in questo limbo» (da Consuntivo).
Nel primo sonetto il poeta esprime l’intenzione d’inscrivere il proprio dramma personale all’interno di una sofferenza universale, di un’appartenenza della Terra tutta alla sfera del malvagio, del demoniaco, della negazione totale dei princìpi di bontà e armonia («la terra tutta, epifania anticristica», da Preludio; «cade in rovina quel mondo intontito/ con fine miserabile da servo», da Confusioni), e propone la storia stessa come frutto del Maligno: «il diavolo è custode di memoria» (da Progresso). Persino il titolo, Apocalisse 23, rimanda, col riferimento al libro di San Giovanni, all’idea che i nostri tempi, «questi tempi ultimi» (da Al lettore), precedano una qualche fine del mondo – prospettiva che però, possiamo dirlo, ultimamente, ci ha anche un po’ stufato. Eppure, la liaison tra la sofferenza privata del poeta e quella comune della Terra non sembra poter sussistere, e l’autore si ritrova solo nel suo dolore, indifferente al male altrui: «vedo annegare un bambino, ma giro/ la testa altrove: non può interessarmi» (da Inquietudine).
Quella affermata in questi versi è una condizione d’isolamento dall’umanità che però non conosce alcuna redenzione, non è nobilitata da una qualche rivalsa dell’io sulle forze che lo dominano, e lascia il poeta eccezionalmente arido e imbelle: «il tempo che si è svolto come a suora/ di clausura: ma senza la vittoria// di spirito su carne» (da L’ultima condizione umana). L’immobilismo del poeta si configura altresì come impossibilità di evoluzione del pensiero («e sembra sfilacciarsi moribondo/ il tentativo di ordire il pensiero/ rimasto troppo a lungo menzognero» da Attesa), leggibile anche nella ripetizione momomaniaca dei sintomi del disagio, sciorinati senza mai auspicare una guarigione o arrischiarsi a trovare una cura ad una malattia che sembra diventata, in ultima istanza, l’unico rifugio possibile per il poeta: «adesso mi raccolgo/ in questo inferno lucido di male,/ nella continua idea maniacale» (da Atto di dolore).
Un libro, diremmo, mistico e apocalittico, che proprio per queste sue caratteristiche ci piace poco, ma che conserva un’interna coerenza metrica, stilistica e contenutistica che dà all’opera uno spessore che la propone come valido esempio odierno di poesia della negatività – verrebbe da citare un verso dell’autore: «un’opera di buio è completata» (da Ultime parole del Cristo ecumenico).

Lorenzo Franceschini
www.argonline.it


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Nel possente regno della frusta


Ci sono, nelle lunghe notti della ragione, certi iconoclasti in grado di risvegliarla. Il mezzo che utilizzano, giustificato come al solito dal proverbiale fine, è la spada. Il loro grido, schiaffo o sberleffo che sia, scuote (e un po’ violenta) le coscienze intorpidite, facendole sobbalzare.

Michele Fabbri è uno di questi. La sua poesia, per quanto metricamente rigorosa (quartine a rima alternata, terzine impeccabili, brevi invettive esplosive...) sui temi è in grado di attraversare come una fiamma un addome così come una mente. Siamo nel campo del nichilismo totale, della disperazione gridata come sotto tortura, della morte anelata, dell'anticristo. Le parole sono le più dure dell’intero vocabolario, quelle più ombrose, quelle che uccidono, quelle spietate. Eppure, nonostante questo Cioran di Romagna aggredisca, il suo urlare è quello di chi disperatamente ha amato: la vita, le sue convulsioni, il suo delirio. C'è in questo vangelo negativo l’eccesso di una religione, anche se di segno opposto: quindi anche di una passione incontrollabile, assoluta, decisiva. In fondo, non c'è un solo grande iconoclasta che, ad esempio, si sia suicidato. Perché l’odio sparso a piene mani e senza incertezze non è altro che il violento amore del nero, ma amore.

Detto questo, e cioè detto che entrando in questo libro ci si inoltra nel possente regno della frusta, resta da ricordare come lo stile di Fabbri, così
orientato al classico,-faccia da supporto impeccabile al teorizzar nervoso
dell’ideologo apocalittico. Anzi, si può ben sospettare che senza un impianto così rigoroso, così ammiratamente classico, il magma ribollente delle idee feroci di Fabbri avrebbe potuto disordinarsi in caos faticoso, e probabilmente in niente più di una vomitata esistenziale sulla desolante materia schopenaueriana...Giocando sul cognome dell’autore, è curioso notare come un fabbro, quindi colui che martella-duramente su una trave di ferro, sia in grado di dar luogo a un prodotto così cristallino, impeccabile, dal suono puro. Ma in questo modo non facciamo che ripeterci: questo è un libro puro, nella sua durezza, un libro che risveglia. Ben vengano quindi questi grandi stimolatori degli appisolati attuali, e tutti coloro che punzecchiano e scuotono e fanno i Giovanni Battista: di loro forse è quel regno dei cieli che, così inopinatamente, a parole devastano.

Michele Fabbri, Apocalisse 23, Soc. Ed. Il Ponte Vecchio,2003, pp. 60

Franco Foschi
TRATTI n.72 – estate 2006


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Michele Fabbri è nato a Forlì nel l967. Non so altro, salvo che ho un suo libro intitolato Apocalisse 23, edito dalla Società Editrice Il Ponte Vecchio. Può essere utile leggersi il passo dell’Apocalisse che Fabbri mette in apertura del libro, per esempio, dove si dice: “Poi vidi un’altra bestia che saliva dalla terra: ella aveva corna simili a quelle di un agnello, ma parlava come un dragone. Essa esercita tutto quanto il potere della prima bestia, in presenza di lei, e fa sì che la terra adori la prima bestia, la cui piaga mortale era stata guarita. E fa dei grandi segni, sino a far discendere dal cielo in terra il fuoco in presenza degli uomini. Tanto che seduce gli abitanti della terra coi prodigi che le fu dato di operare davanti alla bestia; persuadendo gli abitanti della terra ad erigere una statua alla bestia che ricevette la piaga della spada e visse”. E si potrebbe continuare, fino a toccare il-nichilismo più assoluto nei versi: “Il mio fegato è tutto spappolato; / e ho piaghe da decubito al cervello”.

Quello che resta

Sembra solida; cupa materia,
malattia che mi prende col vuoto
alla testa spolpata da idee
verminate su un brodo schifoso,
che diffonde tremendi miasmi,
su carcasse, rottami e macerie.

Roberto Carifi
POESIA, n.210 novembre 2006




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In un contesto in certo modo affine si può inserire l’esperienza poetica, pur così diversa, e anzi assolutamente particolare, impossibile da ricondurre a matrici o a correnti ben definite, del forlivese Michele Fabbri, da Trobar clus (Fermenti, Roma 1999) ad Arcadia. Carmi bucolici per la Romagna toscana (Il Ponte Vecchio, Cesena 2001) ad Apocalisse 23 (ivi 2003). In questa poesia, però, e in particolare nell’ultima raccolta, che in qualche modo proietta la sua satanica «luce nera», il suo opprimente cono di tenebre e di annientamento, anche sulle due precedenti, la discesa alle Madri, il ritorno alle radici e agli archetipi (in questo caso davvero remotissimi, non solo classici, ma addirittura etruschi e celtici) paiono tradursi e risolversi non tanto in un recupero di passato, di identità, di appartenenza, quanto, per così dire, in un itinerarium mentis in nihil, in un naufragio e una dissoluzione della mente e della razionalità nelle paludi del più nichilistico “pensiero debole”, nell’abisso del nulla e dell’insensatezza. «Il nulla si è dissolto nel mio nulla», dice un verso di Apocalisse: alla ratio ratiocinans, al “pensiero che pensa se stesso” di una secolare tradizione di razionalismo occidentale si sono ormai sostituiti un vuoto, un assurdo e una mancanza di senso che reiterano e certificano, ossessivamente, senza via di scampo, se stessi, e nient’altro. «M’illumino di male in luce nera» (folgorante rovesciamento nichilistico dell’ungarettiano «M’illumino / d’immenso»); «il nulla che ho vissuto mi è bastato»; «Tutto diventa scialbo e indefinito, / si confonde ogni cosa su se stessa». Unità versali, queste – endecasillabi solidissimi e scolpiti, insistiti, per così dire coatti, spesso ulteriormente rinserrati nella forma chiusa, e ormai desueta, eccezion fatta per ardue ricerche sperimentali come quelle dello Zanzotto del Galateo in bosco, del sonetto –, che sembrano quasi tradurre, nella stessa dispositio verborum e nello stesso cadere e ripetersi di suoni ed accenti, l’irredimibile angoscia di una situazione esistenziale, ma anche storica, epocale, priva di luce e respiro.
Questo viaggio, questa immersione nel grembo o nella notte del nulla e della dissoluzione, si trovavano anche in uno splendido testo di Arcadia, La festa dei morti, in cui il motivo del ritorno dei morti o del ritorno ai morti, familiare ai lettori della poesia moderna e contemporanea, da Baudelaire a Pascoli a Montale, era ricondotto ad una remota e cupa ascendenza celtica: «Poi quella notte vennero i morti, / muti, guidati dalla dea Litana, / in quella notte a chiedere conforti. […] // Lontano una campana / conduce le anime verso i porti / dei vivi, in mezzo alla nebbia padana. / Si consuma, / quella notte, la morte tra la bruma». Qui la rievocazione del mito celtico, che sta probabilmente alla base di una radicata tradizione romagnola di culto dei defunti, si coniuga con l’evidente ripresa di stilemi della pascoliana Tovaglia («Bada che vengono i morti! / i tristi, i pallidi morti!»). Il ritorno dei defunti trascina dietro sé la riesumazione delle spente figure del mito e il recupero del codice, altrettanto logoro, di un idioma poetico codificato e pietrificato.
E anche in questo autore la rievocazione del mondo defunto e sepolto confligge drammaticamente con l’implacabile urgere della contemporaneità scientistica e tecnicizzata. La «medianica intuizione / della vita nel passato», propria della coscienza, o dell’illuminazione, possibili nella dimensione ermeneutica della storicità, sembrano essere annientate dall’era della Tecnica, dalla frenetica e frammentaria parcellizzazione delle conoscenze indotta dal proliferare dei saperi tecnici e specialistici. Il lettore di Trobar clus non può che «afferrare brandelli / di umanesimo»; gli esiti della ricerca scientifica sono «cristalli rotti non più ricomposti». Già l’Eliot dei Chorus from the Rock si chiedeva dove fosse «la scienza persa nel sapere», e il sapere «perso in miriadi di conoscenze». L’alternativa, o meglio l’aporia, pare suggerire il poeta, sembrano porsi, infine, fra due possibilità ugualmente angoscianti: da un lato la frammentazione disorientante dello specialismo (la «barbarie dello specialismo», come la chiamava già l’Ortega y Gasset della Ribellione delle masse), dall’altro la suprema e perenne unità, annientante ma infine, forse, pacificatrice, del nihil aeternum. Non è casuale che Arcadia rechi in esergo con una preziosa citazione dai Canti orfici di Dino Campana, poeta profondamente, quasi visceralmente legato alla matrice tosco-romagnola, e maestro nel proiettare su di un «paesaggio italiano» miticamente trasfigurato dall’immaginazone visionaria il proprio allucinato e torturato vissuto. I frammenti dei taccuini e degli abozzi che costellano e documentano la tormentata gestazione degli Orfici sembano suggerire proprio un naufragio della mente, dell’io lirico, nel nulla e nel buio del finale e supremo obnubilamento: «Se tale a le tue mura la proclina / Anima al nulla nel suo andar fatale» (Sulle montagne); «volontà e rappresentazione che del mondo fa la base di un cono luminoso i cui raggi si concentrano in un punto dell’infinito, del Nulla, in Dio» (come a suggerire che, infine, in Dio o, indifferentemente, nel Nulla, o forse in un dio che è nulla, in un nulla che è dio, l’anima dispersa nelle cose del mondo, sparsa nella casualità mutevole ed illusoria delle sensazioni, degli eventi, degli incontri, possa trovare la sola possibile e definitiva pacificazione, la sola ricomposizione in quiete e in unità)…

Matteo Veronesi

tratto da MODERNITÀ E MEMORIA. UNO SGUARDO SULLA POESIA DEL SECONDO NOVECENTO IN ROMAGNA
in IL LETTORE DI PROVINCIA n.128 – 2007






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Il libro del Diavolo

L’interrogativo sulla natura del Male è antico come il mondo, ma per la Liturgia infernale non vi è alcun dubbio: “Dall’alto dei cieli ci snerva / lo sguardo di un Dio sconosciuto / (…) Demonio ci spinge a osannare / il freddo di un male infinito”. (Introito pag. 11). L’origine del male risiederebbe, dunque, nella percezione di un Dio distratto ed indifferente: “Il vuoto l’ho sentito troppe volte / ci ho fatto un’abitudine perversa. / Cerco parole di preghiere stolte, / cerco parole di preghiera inversa.” (Lamentazione sulla nascita pag. 24); di un Dio astratto che serve a giustificare l’inadeguatezza della vita e la fralezza della condizione umana: “La vita è mediocre e frammentaria. / Così decreta, per autorità, / un’assurda esistenza che non varia / nella sua norma di infelicità.” (Lamentazione sulla vita pag. 25). Due divinità di opposta valenza simbolica si contendono da sempre le redini del comando, finendo per disarmarsi a vicenda e lasciare il mondo in preda ad un grave vuoto di potere e a un dolore che pare non conoscere tregua. Piegato dal grave fardello delle sofferenze, l’uomo da debole creatura diviene conseguentemente contraltare satanico del biblico Giobbe. Il morbo malefico
s’impadronisce a poco a poco del suo corpo, penetrando fatalmente nelle pieghe dell’animo, inducendolo a rinnegare Dio per spingerlo in un luogo inferico ed inconoscibile: “Ora mi porto addosso in tutto il corpo / le piaghe di una lebbra che mi appesta; / e l’anima malata io l’accorpo / ai mali della peste che m’infesta.” (Lamentazione sulla vita pag. 25).
Desta inevitabile curiosità la pubblicazione di un libro di testi in versi e prosa che si annunciano come ‘liturgia infernale’. E dal momento che l’autore cela la propria identità nientepopodimenoche dietro a quella di Satana, non è difficile incorrere per di più in qualche luogo comune. L’anonimia, sia essa dettata dalla falsa modestia dell’autore oppure dall’estremo pudore di un soggetto infernale, rientra in maniera assonante nel gusto di una materia demoniaca e seduttiva, di un’atmosfera allucinata e stravolta.
E’ questo un libello indignato dai cui versi soffia un vento di rivolta contro un dogmatismo asettico e svincolato dalla realtà, che immette in una condizione esistenziale che non prevede altra via d’uscita se non la conversione al demonio: “il Diavolo è la guida naturale, / in un deserto vuoto d’intenzioni; / col mio silenzio di pietra tombale / innalzo a lui le mie lamentazioni.” (Lamentazione sulla morte pag.26). Dopo secoli passati a cercare di esorcizzare il male, mediante l’esegesi dei testi sacri e l’insegnamento della dottrina religiosa, sembra essere venuto il momento di accettarne la presenza. Satana ha buon gioco nel dispiegare, in questo pur breve excursus letterario, una liturgia in forma parodistica di testi, inni, salmi e preghiere. La struttura semantica dei versi, che costituiscono la parte preponderante del libro rispetto alla scrittura in prosa, non disdegna un recupero dello stile classico, che è costituito dalla sontuosità metrica e dai virtuosismi di parola e di rima. L’autore dispiega il proprio verbo in una variegata scelta di forme, passando dall’impiego degli schemi formali del sonetto ad un metrica più libera, per finire con un verso lungo, disteso e prosastico. La sensazione che se ne ricava, a fine lettura, è quella di un primo drastico svuotamento della metafora infernale dai suoi contenuti dogmatici ed ideologici, e in senso lato di una sua riduzione alla dimensione del soggetto.

Satana, Liturgia infernale, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 2008, pp.48

Gian Paolo Grattarola


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Poesia volutamente inattuale, ma non anacronistica né extramondana, si colloca in rapporto colla realtà per metafore erudite, tra ironia e disperazione. Michele Fabbri salva veramente poco della realtà che lo circonda: del resto, ogni poeta sa che non c'è quasi nulla da salvare al mondo. Ma nemmeno si può pensare di trovare salvezza nel trobar clus, cioè in un’allegoria aspra e chiusa che non fermerebbe comunque la presenza endemica della realtà e dei suoi veleni. Ecco, allora, che agli occhi di Michele Fabbri la soluzione può essere quella di esorcizzare il diavolo, evocandolo apertamente: una gioiosa tragedia! Poesia della ragione e della forma, splendida nell'espressione evocatrice di armonie classiche, ma dissacrante per l'erosione ironica che tutto destabilizza.

Satana, Liturgia infernale, Società Editrice Il Ponte Vecchio, Cesena 2008

Sandro Gros Pietro - Vernice n.40 – 2009




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Brigit, Terra di Mezzo, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 2009, pp.160

Marzio e Luca Casalini, promotori ed animatori delle edizioni “Il Ponte Vecchio”, nelle interessanti ed eleganti collane di Storia, Saggistica, Pedagogia, Poesia, Teatro, Arte ecc., hanno inserito come corollario alla Saggistica delle pubblicazioni attribuite ad una Autrice speciale e al di sopra delle vanità che spesso gli intellettuali del nostro tempo ci mostrano, non concependo affatto la possibilità di scrivere con anonimato e solo per dovere impersonale.
Brigit, la dea celtica della profezia e della sapienza, è in senso simbolico colei che conduce il lettore attraverso una serie di saggi dai contenuti che vanno dalla storia alla politica, dalla critica del costume agli interventi occulti massonico-giudaici negli sviluppi della società moderna. Molti di questi saggi fanno riferimento a fondamentali pubblicazioni dell’area antagonista e tradizionalista. Si tratta di un libro ben costruito e di una iniziativa editoriale utile e intelligente. Utile, perché, con i suoi circa trentacinque temi, dà un quadro abbastanza chiaro del fermento di idee nella cultura antagonista; intelligente, perché permette a coloro, specie ai giovani, che non vogliono addentrarsi in letture più articolate, di avere una sufficiente e stimolante informazione su autori del pensiero alternativo. Queste ci sembrano buone ragioni per consigliarne la lettura.

Paolo Zagali

HELIODROMOS, n.22 – 2010




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Il Trobar clus di Michele Fabbri
Recensione di Sibilla di Saxatica

Con una metafora musicale si potrebbe dire che Trobar clus è come la polifonia medievale: un primo pionieristico tentativo di costruire architetture musicali.

Il XX° secolo letterario si è concluso con la pubblicazione del primo libro di poesie di Michele Fabbri. Il libro d’esordio di Michele Fabbri prende nome dal trobar clus, il poetare ermetico ed esoterico dei trovatori provenzali. In questo richiamo alle origini della letteratura moderna europea ci sono i temi che Fabbri svilupperà nel corso della sua brillante attività letteraria. Trobar clus è una raccolta ancora acerba nella forma e nello stile: il verso libero si alterna alla metrica tradizionale e i temi spaziano da topoi classici della letteratura a percezioni più moderne. Il lettore è condotto da attese ed epifanie del sacro al canto neostilnovista in lode della donna, fino all’utilizzo di linguaggi sperimentali quasi avanguardistici. E, coerentemente col titolo della raccolta, non mancano echi dell’esoterismo cataro che proprio in Provenza ebbe il suo centro di diffusione.

Davide Rondoni, nella prefazione a Trobar clus, rileva una certa rigidità espressiva in quest’opera prima del Fabbri, ma anche le potenzialità di una parola mai banale, sempre gravida di significato e suscettibile di ulteriori processi di raffinamento. Il linguaggio lirico del Fabbri è sicuramente una novità interessante nel mondo letterario, una novità con cui il mondo culturale si potrà confrontare per trarne spunti fecondi e innovativi.


Michele Fabbri, Trobar clus, Fermenti Editrice, Roma 1999, pp.32




L’Arcadia di Michele Fabbri
Recensione di Sibilla di Saxatica

Con una metafora musicale si potrebbe dire che Arcadia è fresco e vivace come un concerto di Vivaldi.

Il secondo libro di Michele Fabbri, Arcadia, è un lavoro originale e piacevolissimo, che reinterpreta in chiave moderna i temi letterari arcadici con risultati di sorprendente efficacia. L’operazione non è facile e rischia di scadere nel banale, ma Fabbri riesce a inventare soluzioni interessanti: innanzi tutto l’utilizzo dell’haiku, il metro di origine giapponese che è ormai consacrato anche nelle letterature occidentali come espressione privilegiata per la descrizione di scene naturalistiche. Agli haiku vengono affiancati i metri tradizionali italiani, che Fabbri utilizza con la consueta abilità: dal sonetto alla sestina ai versi sciolti. Arcadia si caratterizza per un’espressione raffinata che a tratti raggiunge una musicalità sontuosa.

Il carattere descrittivo della raccolta affronta i temi tipici della letteratura arcadica: flora, fauna e pastorelle…
Ma accanto a questi temi ci sono anche riferimenti a momenti storici e luoghi caratteristici della subregione Romagna-Toscana, il luogo di origine del poeta.

Arcadia è un libro che mostra come generi antichi e apparentemente non più percorribili possono invece essere riutilizzati con successo, se proposti in modo opportuno al lettore contemporaneo.


Michele Fabbri, Arcadia, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena 2001, pp.48




Apocalisse 23
Recensione di Sibilla di Saxatica

Con una metafora musicale, si potrebbe dire che Apocalisse 23 è un’opera severa e monumentale come una Passione di Bach.

Pochi libri hanno segnato un’epoca come Apocalisse 23. Questa raccolta di liriche di Michele Fabbri cattura l’attenzione col suo raggio di luce nera che annichilisce i lettori lasciandoli in una condizione di gelida solitudine e di impietrita commozione. L’architettura formale del libro è solida e grandiosa: tutti i testi sono in metrica tradizionale: dal sonetto alla terzina dantesca, dagli endecasillabi sciolti all’ode saffica…
Il linguaggio, sempre attento e misurato, inclina a un salmeggiare austero, a un tono da lamentazione biblica che raggiunge punte di intensità emotiva raramente riscontrabili nella letteratura italiana, fino a toni strazianti che trovano l’uguale solo nei testi di Emil Cioran.

La lettura di Apocalisse 23 è una vera e propria traversata del deserto, irta di tentazioni diaboliche, col sole accecante che brucia gli occhi e la sete che non concede tregua. È difficile immaginare che l’espressione letteraria possa spingersi oltre il limite estremo segnato da questa raccolta che ha concluso la vicenda poetica di Michele Fabbri, un autore che ha segnato una tappa importante della letteratura contemporanea e che, nonostante la brevità della carriera letteraria, costituisce un sicuro punto di riferimento per la poesia contemporanea.


Michele Fabbri, Apocalisse 23, Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena 2005, pp.64




Questo brano è un capitolo dell'ebook:

Sibylla de Saxatica
LIBER ORACULORUM

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