Michele
Fabbri, di Forlì, mi chiede un parere sul suo “Trobar clus”
(Fermenti). Scrive nella sua lettera: "I1 libro che ho
pubblicato è influenzato dai miei studi sulla letteratura medievale,
ed evidenzia certi miei interessi culturali legati all'esoterismo
cataro e ad autori tradizionalisti. I1 mio retroterra culturale,
infatti, è nutrito anche di letture inconsuete che sono al di fuori
dei percorsi della cultura ufficia1e". La raccolta di Fabbri
possiede la cifra del cammino, della ricerca, soprattutto sul piano
della lingua e dello stile. Si tratta di un lavoro in fieri, migliore
quando lo studioso si fa da parte lasciando più spazio al poeta.
Davide Rondoni osserva nella prefazione la "mistura di canto e
di dura ironia" presente in queste poesie, sottolinea che il
"canto qui è faticoso, non è agevolato da una facile cura
musaica dei versi", ma aggiunge anche che questa "faticosità
è morale oltre che formale". Condivido in pieno le osservazioni
di Rondoni, che mettono in evidenza le componenti forti di un
discorso poetico destinato a crescere.
L'organo
della cattedrale di Chartres
Ed
è tutta
un
fremito di pietra
la
cattedrale
che
danza al ruggito
della
selva di canne.
Con
possente, smagliante
pienezza
il respiro
dell'organo
intreccia
melodie
paranoiche,
sconvolte
nei meandri del labirinto
Roberto
Carifi
Poesia
n.137 – 2000
***
Il
Trobar
clus
di Michele Fabbri
Piaccia
o no, ogni poeta, ogni vero poeta è, in qualche modo, un “figlio
di Ermete”. Come tale, egli ha a che fare con infiniti spettri di
sonorità e colori, con ritmi segreti che covano assopiti nell’animo
del demiurgo. Da questa pietra nera, da sgrossare pazientemente, e
poi da lavorare e lavorare ancora, si effonde infine una materia
plastica, animata
d’etere
e luminosità: la poesia. “Poetare è creare”, sussurrava
Novalis. E non v’è poeta che non sia autore di nuove costellazioni
e d’infiniti mondi e modi d’essere. Lungo il misterioso cammino
nelle cui segrete il piombo, silenziosamente, va trasmutandosi in
oro, è possibile inciampare in esperimenti indecifrabili e suadenti.
In figure e momenti in cui la pietra è ancora grezza, ma già
s’affaccia la promessa della trasfigurazione degli elementi. È
questo il caso del Trobar
clus
di Michele Fabbri. Poeta (?) esordiente e demiurgo in
pectore,
Fabbri mescola audacemente cortei di suggestioni esoteriche tinte di
medioevo (L’organo
della cattedrale di Chartres,
tra tutte) ad una spigolosa ironia che rende il canto, già faticoso,
distonico e frammentato. C’è un deserto da attraversare (Atto
meditativo),
e l’autore si incammina con rassegnato coraggio lungo strade di
“luce astratta/di soli freddi” (Kali-yuga);
strade appena punteggiate di cespugli di storia e di vita (Domande
degli sconfitti, In lode della donna mia).
Le sole oasi raggiungibili, isole di verde nel deserto aggredito dal
viandante, sono rappresentate dai lampeggiamenti dell’aspirante
trovatore, del cataro che oscilla tra convenensa
e consolamentum
(Confine,
Anima
symphonialis,
Nostra
Signora).
E se la musica risulta sacrificata sull’altare dell’immagine e
dell’ansia del dire (tutto), non per questo la rottura
di livello
– che, ci si augura, dovrebbe tener dietro al Kyrie
eleison
che si libra sulle tracce della Profezia
di un “eterno delirio evemeristico” – è di là da venire.
Allora, con essa, verrà anche la melodia.
Alessandro
Giuli
Area,
n.51 ottobre 2000
***
Michele
Fabbri (Forlì)
“Trobar
clus” (Fermenti 1999), silloge d’esordio di Fabbri, ci
precipitain una pirotecnia lessicale abbagliante. Emerge chiaramente
il campo culturale prediletto dall’autore (la storia medievale e la
filologia mediolatina), abile giocoliere di parole, divertente forse
suo malgrado, sembra riecheggiare il dramma di Jorge, il
bibliotecario de “Il nome della rosa”: “Aristotele ha mai
scritto un libro sulla Commedia?” nel dubbio Fabbri lavora di
cesello per raccontarci le sue storie, tanto sue da non disdegnare
l’autoreferenzialità: “Fabbri, guerriero di Shambhala” - e
ancora – “Michele, all’abbandono di coscienza egoica prepara
l’anima”. In agguato: compiacimento e ridondanza. Ma soprattutto
un’alterna attenzione per la metrica. Si impone una scelta fra
l’adesione alla metrica e il verso sciolto.
Storie
n.41 – 2001 (la recenseide)
***
MICHELE
FABBRI – Trobar Clus, Ed. Fermenti, Collana Iride, 1999
Il
titolo della plaquette idealmente fa eco alle letterature romanze e
di queste si respirano le atmosfere rarefatte e pur così
sensorialmente percepibili nelle raffigurazioni di visioni e vissuti
esistenziali, che sfumano in canti dall’ironica vis espressiva
(“Qui c’è coscienza di luogo / non di esistenza / se ti cerchi
uno sfogo / c,è il rischio di scoprire la demenza.
daApprossimazioni, pag. 21). L’apparato lessicale, di matrice
umanistica, restituisce al lettore lo sforzo intellettuale, spesso
formalmente ben tratteggiato, dell’uomo che, talvolta delirante,
tenta di svelare il mistero del mondo della verità, della conoscenza
del bene e del male (“Sprofondata nella terra / con radici di
quercia, / l’esperienza / in proiezione d’inesauribile /
vegetante coscienza” da Confine, pag.14).
Carmen
Bochicchio
HYRIA
n.89-90 2000/2001
***
Ora
poiché l'autore si è spontaneamente avvicinato ad una poetica che
ha il sapore di una stemperata, moderna Arcadia, il suo primo libro
di poesia, «Trobar clus», ci appare (così come appare al prefatore
Davide Rondoni) veramente una mistura di canto e di dura ironia».
Michele Fabbri, forlivese con radici in Val Montone, è laureato in
Storia ed è uno studioso di letteratura medievale. Proprio da queste
due interdipendenti discipline è scaturito, certamente 'di getto',
il «Trobar clus». Vi si incontrano infatti potenti eccitamenti alla
sacralità, al misticismo, all'ascolto della ragioni degli sconfitti
della storia, compresi coloro che non sono assolti dalla morale.
Nessun furore religioso, dunque, nessun fondamentalismo anche se,
come scrive ancora Davide Rondoni, questa sua poesia «è una vicenda
di vita o di morte». A me basta, a riscaldarsi l'anima, il calore
che emanano i pochi versi del «Santuario della Verna»: «In linfa,
di alberi / lungo un sentiero / di pietra. / Le orecchie /
vezzeggiate da melismi / di versetti alleluiatici». Quando scrisse
«Trobar clus» gli interessi culturali di Michele Fabbri erano
ancora fortemente legati ad altri elementi del suo retroterra
culturale e cioè, com'egli confessa, connaturati «al di fuori dei
percorsi della cultura ufficiale» tra cui possiamo distinguere
un'intensa attrazione per l'esoterismo cataro e certe affinità con
una folta schiera di autori tradizionalisti. Tutto ciò è vero, ma
ciò non toglie nulla alla spontaneità ed alla freschezza della sua
poesia poiché egli 'sente' e interpreta la multiforme civiltà
medievale come una propedeutica alla vita. Al contrario dell'uomo
moderno che, fiero della propria presunta superiorità ed entusiasta
del benessere materiale e della scienza, deride le fedi, le
esaltazioni mistiche, i cataclismi inficiati di romanticismo, le
forze del vivere; egli cerca di stimolare la stoica grandezza
dell'animo umano. Comunque sia, questa sua «mistura di canto e di
ironia» ha fatto veramente colpo. Alcuni testi sono stati infatti
selezionati in antologie ed hanno ricevuto l'apprezzamento di Roberto
Carifi (di lui è uscita una recensione nella rivista «Poesia»),
Elena Landoni, Giorgio Bàrberi Squarotti, Mariella Bettarini, Franco
Cardini, Gio Ferri, Guido Zavarone, Silvana Folliero, Giuseppe
Pontiggia, Alberto Cappi, Massimo Scrignòli, Maura Del Serra,
Giovanna Bemporad ed altri.
Voglio,
per ultimo, riportare una sua poesia da me particolarmente
apprezzata:
Anima
symphonialis
Dallo
sprofondo
del
nulla un’onda
di
luce affiora
sul
volto: dispiego
canti
di giubilo alle danze
dei
corpi celesti, nell’aurora
edificante
di gioiose contemplazioni.
Luciano
Foglietta
La
Piê, n.4 – 2001
***
Estro
lirico e sintesi espressiva
La
poesia di Michele Fabbri
Michele
Fabbri è un giovane forlivese studioso di letteratura medievale. Da
pochi anni si dedica attivamente alla poesia ed è un buon esempio di
come si possa efficacemente fondere il lavoro dello studioso con
l’estro lirico, in un risultato di convincente sintesi espressiva.
Ha pubblicato due libri di poesia, Trobar
clus
(Fermenti, 1999) e il recentissimo Arcadia
(I1 Ponte Vecchio, 2001). La sua prima raccolta rivela già una
promettente cifra stilistica, nonostante i1 denso retroterra
culturale renda l’architettura formale dei testi non immediatamente
scomponibile. Davide Rondoni, nella prefazione a1 volume, afferma “è
un canto ‘nonostante’ tutto: la sua faticosità è morale oltre
che formale”, evidenziando questa difficile ma possibile sintesi
tra contenitore linguistico e nucleo tematico. Eppure non c’è mai
erudizione né compiacimento retorico in questi versi che, proprio
nella loro sorprendente “cantabilità”, raggiungono un risultato
di freschezza creativa, soprattutto in quei componimenti più brevi e
concentrati, che delimitano efficacemente un campo meditativo
(“sprofondata nella terra/con radici di quercia,/1′esperienza in
proiezione d’inesauribile/vegetante coscienza”. Il bagaglio
dell’officina linguistica medievale, con i suoi bestiari e i suoi
enigmatici topoi,
disegna un tessuto di rimandi simbolici che Fabbri sa comunque
incastonare con accorto equilibrio di toni e con attitudine ironica.
Il trobar
c1us,
l’elaborata soglia dell’impianto retorico, si rivela allora come
la punta di iceberg per tesori sommersi. La ricerca formale,
giostrata su questo ben specifico recinto semantico, riesce infatti a
non confondere artificio con autentica ispirazione, consentendo
un’istintiva piacevolezza di lettura. Nella sua ultima, agile
raccolta, il discorso poetico di Fabbri si confronta invece con il
richiamo dell’essenzialità agreste e con il genere giapponese
degli haiku. Questo modello espressivo, ormai ampiamente diffuso
anche nel repertorio lirico occidentale (con 1e inevitabili deroghe
al prototipo originario) è costituito dai canonici tre versi 5-7-5
che consentono una fulminea incisività delle immagini, riferite
generalmente a dati naturalistici. I testi di Fabbri, il cui tema è
appunto “bucolico” (i1 sottotitolo della raccolta è Carmi
bucolici per la Romagna-Toscana) riescono a produrre sensazioni
liriche di levigata nitidezza, e i numerosissimi haiku della raccolta
sembrano quasi connotarsi come dediche affettuose alla creaturalità
animale e naturale di un ambiente contemplato nella sua potenzialità
evocatrice di significati profondi. Le pennellate visive che
compongono la tavolozza lirica di Fabbri, racchiuse in un lampo di
osservazione non divagante, sembrano dare definizione a una realtà
non comunque contraffatta, non mimetizzata, seppure il dato idilliaco
e nostalgico sia un elemento costante della raccolta. Accanto a
questi haiku l’autore ci offre anche sonetti e altre forme
compositive per testi racchiusi in moduli
classici, ma rielaborati modernamente secondo un’interiore tensione allo scandaglio metafisico della cifra enigmatica delle cose. Da queste due prove poetiche, apparentemente diverse per temi e schemi formali ma contigue nelle finalità espressive, appare evidente come Fabbri voglia esplorare quel confine tra natura e artificio, tra istinto e costruzione, terra di nessuno che sottende e riassume le opposte istanze. L’urto fra le due contrapposizioni pare infine affievolirsi nella consapevolezza di questo libero fluire della polarità vitale. I testi qui presentati sono tratti da Arcadia:
classici, ma rielaborati modernamente secondo un’interiore tensione allo scandaglio metafisico della cifra enigmatica delle cose. Da queste due prove poetiche, apparentemente diverse per temi e schemi formali ma contigue nelle finalità espressive, appare evidente come Fabbri voglia esplorare quel confine tra natura e artificio, tra istinto e costruzione, terra di nessuno che sottende e riassume le opposte istanze. L’urto fra le due contrapposizioni pare infine affievolirsi nella consapevolezza di questo libero fluire della polarità vitale. I testi qui presentati sono tratti da Arcadia:
Haiku
per il lupo
Aria
che taglia,
rimescolìo
del sangue:
lupo
che ulula.
Haiku
per la vipera
Vipera
lenta
elabora
le trame
di
erba sinuosa.
Haiku
per ìl suono del vento nella foresta
Volta
celeste
solfeggia
fra gli abeti:
plettri
del vento.
Haiku
per il temporale
Lucido
il lampo
balena
illuminando
grumi
di nuvole.
La
festa dei Morti
Poi
quella notte vennero i morti,
muti,
guidati dalla dea Litana,
in
quella notte a chiedere conforti,
quando
si attraversa la dogana
della
vita tra gli alberi contorti
di
novembre. Lontano una campana
conduce
le anime verso i porti
dei
vivi, in mezzo alla nebbia padana.
E
per l’orribile regno delle ombre
ci
furono tovaglie apparecchiate
perché
sedessero alle case sgombre
di
vivi, a consumare le approntate
offerte
per gli spettri. Si consuma,
quella
notte, la morte tra la bruma.
Daniela
Monreale
LE
VOCI DELLA LUNA
n.19
– 2001
***
Arcadia
di Michele Fabbri
Lo
scrittore forlivese Michele Fabbri, ricercatore in filologia
mediolatina all'università di Firenze, è un appassionato cultore di
letteratura medievale. Come autore. ha rivolto un'approfondita
attenzione alle forme chiuse e ai modelli classici. Nel 1999 ha
pubblicato la raccolta di liriche “Trobar clus”, con premessa di
Davide Rondoni, Fermenti, Roma: una ventina di testi, molto curati
nella forma e talvolta in metrica, con echi medievali e provenzali.
L’ultimo volumetto di poesie pubblicate si intitola “Arcadia”,
con presentazione di Luciano Foglietta, collana Alma poesis, Il Ponte
Vecchio, Cesena. 20001. Queste poesie rievocano il mito arcade, che
avrebbe dovuto definire un luogo ideale di vita gaia. idilliaca e del
tutto separata dalla realtà, come risulta nel mito dell'antica
regione pastorale greca; ma rievocano anche i propositi letterari
dell'Accademia romana dell'Arcadia, alla fine del XVII secolo, di
diffondere un raffinato linguaggio poetico che fosse, nel contempo.
semplice e spontaneo. limpido, vicino ai modelli bucolici greci e
all'elegia latina. Fabbri aggiunge una sponda esotica ed orientale a1
suo programma, in quanto è anche un efficace e delicato cultore
dell’haiku. Il sentimento della fugacità della vita e il
succedersi delle stagioni e delle generazioni, unito al sentimento
dell'incombenza della morte e di una presenza svelatrice ed
ammonitrice dell'al di 1à sulle cose e sulla vita quotidiana animano
questa poetica fatta di rivelazioni, miti, memorie dell'antichità,
animazioni ed operazioni di fastose e propizianti archeologie
letterarie
Vernice
n.19/20 - 2001
***
Ricorso
alla memoria in “Arcadia” di Michele Fabbri
Diciamolo
subito e senza alcuna esitazione. “Arcadia” di Michele Fabbri
bello e notevole. Già nel 1999 l’Autore, che vive a Forlì dove è
nato nel 1961 , aveva dato alle stampe per i tipi di Fermenti la sua
prima raccolta di liriche dandogli per titolo “Trobar clus”. E
ciò non stupisce il lettore: trobar clus, che è il poetare in un
linguaggio intenso ed elaborato fino all’oscurità, è la forma
espressiva propria dei poeti provenzali, di lirici immensi come
Marcabruno e Arnaut Daniel, che Michele Fabbri ha approfondito
specializzandosi nello studio della letteratura medievale dopo una
laurea in Storia. Adesso questo nuovo libro dal titolo ammaliante e
sommessamente provocatorio che si compone, quasi nella sua interezza,
di haiku. Per ragioni di gusto non abbiamo mai apprezzato i poeti che
compongono versi imitando le strutture verbali che non gli
appartengono, così riducendo un genere illustre soltanto a meccanica
versificazione. Ma Michele Fabbri rappresenta una piacevolissima
eccezione, si appropria di un metro giapponese, l’haiku, che ha
trovato in Basho il suo più rigoroso e drammatico cantore, e vi
riserva suggestioni personalissime, modella una complessa quanto
apparentemente semplice tramatura fonetica, mantenendosi in perfetto
equilibrio, fino a risemantizzare nel verso l’icasticità di una
sofferta macerazione interiore. La bellezza di queste liriche risiede
nel loro spirito: esse sono volutamente attardate, così distanti
dalle correnti decostruzioni linguistiche che infine appaino
scontrosamente moderne. Luciano Foglietta, prefacendo il libro, ci
suggerisce il tema della “cancellatura” e del ricorso alla
memoria, fino all’attrazione per un tempo remoto e primitivo. Ma
questa poesia, e vorremmo qui dissentire con Foglietta, non ci pare
vagheggiamento del passato in quanto il canto della tradizione alla
fine appare con un motivo incidentale, e anzi l’antichità che
erroneamente la nostra tradizione scolastica ci ha mostrato come
barbara è speculare ad un giudizio intellettuale compiacente e
tollerante. Da qui il recupero: la poesia mantiene un timbro
umbratile e bucolico in funzione non adornativa ma progressiva,
dunque culturalmente evolutiva. Il tema della cancellatura, di
notevole interesse, ci riporta alla memoria una bella frase di
Beckett, nel suo saggio su Proust, e che vorremmo estendere all’opera
di Fabbri: ”La tendenza artistica non è espansione ma contrazione,
e l’arte è l’apoteosi della solitudine”. In questa composita
Arcadia l’haiku si manifesta appunto come contrazione, decantamento
stornato, serrata locuzione (si legga per tutti l’haiku per il
cinghiale. “Scruta grifagno il muso di cinghiale: occhio sospetto”)
dove anche i1 silenzio, il rimanente biancore del foglio, è forma di
comunicazione. Insomma una poesia matura e compiuta, degna di plauso
e meritevole di accurate letture.
Beniamino
Biondi
IL
CONVIVIO n.11 – 2002
***
Michele
Fabbri, poesie "Trobar clus", Fermenti, Roma 1999
Poesia
non facilissima quella di Fabbri, ma sicuramente il suo primo
desiderio è stato proprio quello di costringere il lettore a
portarsi prima sul suo terreno colto e importantissimo di studioso di
letteratura medievale e ad essere colpito poi della profondità delle
proprie espressioni. L'insieme che scaturisce, fra uso di termini non
d'uso corrente e la ritmica "epicale", è buono, ma
l'autore, giovanissimo, deve non correre il rischio di produrre
poesia
ad esclusivo uso e consumo. Ha indubbie doti e preparazione. A
confronto due poesie dello stesso volume: "Anima symphonialis"
"Dallo sprofondo / del nulla un'onda / di luce affiora sul
volto: dispiego/ canti di giubilo alle danze / dei corpi celesti
nell'aurora /edificante di gioiose contemplazioni'. "Ultime
volontà": "E infine potessi / avere / il coraggio/
sovrumano/ di preferire /i neumi del Dies / irae alle rassicuranti /
note di Arvo Part".
Moreno
Botti
Il
Tizzone n.2 – 2002
***
Michele
Fabbri, Apocalisse 23, Società Editrice Il Ponte Vecchio, Cesena
2003
Questo
volumetto di liriche, inserito nella collana "Alma poesis"
- Poeti della Romagna contemporanea, si presenta, in controtendenza,
introdotto da un brano dell'Apocalisse. Dal vaglio negativo dei
problemi di natura esistenziale, l'Autore giunge ad un'impietosa
presa d'atto del senso dell'Essere, del-dolore umano e della nullità
delle cose. E' un messaggio, trasmesso al lettore con fine ricerca
linguistica e apprezzabile stile letterario, che si colloca come
testimonianza. pur se negativa, del nostro tempo. Partendo
dall'interpretazione delle antinomie storiche, passate al vaglio del
complesso mondo dello spirito, l'Autore compie un'autoanalisi della
coscienza, una ricerca del senso dell'Essere, con riflessioni
negative sulla problematicità dei suoi esiti. C'è un senso di
protesta sociale in quest'atto di sfiducia verso la vita, una
impietosa testimonianza del conflitto interiore che la società di
oggi genera, un messaggio permeato di dolore e di amarezza, di
tristezza e di sofferenza. Inutile cercare in questi versi uno
spiraglio di luce, c'è solo la delusione profonda e lo sconcerto del
protagonista che si fa trascinare dallo sconforto. dalla diffidenza,
dalle frustrazioni, per giungere all' autoflagellazione: "Non
voglio ritornare sui miei passi, il nulla che ho vissuto mi è
bastato:/lamento solo la presenza/di un futile passaggio
inconsistente/ fra queste schiere d'ombra dei miei simili,/intese a
non lasciare traccia alcuna". E' un giovane Michele Fabbri.
Laureato in storia, ha approfondito 1o studio della letteratura
medioevale. Ha già al suo attivo altre pubblicazioni e noi gli
auguriamo che possa dare
ancora
contributi validi al nostro tempo, fatti anche di analisi critica ma
permeati di-speranza e di propositi costruttivi.
Angelo
Messina
Il
Tizzone n.2 – 2003
***
MICHELE
FABBRI “APOCALISSE 23”
A
esergo di “Apocalisse 23” (Il Ponte Vecchio 2003) ci sono i
versetti dell’Antico Testamento: poi vidi un’altra bestia che
saliva dalla terra. Ella aveva corna simili a quelle di un agnello,
ma parlava come un dragone”. È un canto luciferino, questo di
Michele Fabbri, medievalista, adoratore del male. Per l’occasione
viene scomodato il mito dell’Ebreo Errante: “Privo di patria vivo
senza affetti / imparo tutti i giorni a farne a meno / e vivo nel
distacco dagli oggetti”. Appare la visione di una terra rovesciata,
dove i rapporti umani sono dissanguati dall’incomprensione, perché
si parla una lingua dispersa in mille rivoli (“Grande Babilonia”).
Ma di fronte al libro non occorre fare gli scongiuri, né servono
esorcismi. Si tratta piuttosto di rivisitare la poesia cortese,
quella più mistica e oscura, che per inciso l’autore ha già
frequentato ai tempi di “Trobar clus” (1999). L’esoterismo,
insomma, l’immaginario infernale e fantastico sono di nutrimento
alla retorica poetica. L’iconoclastia si risolve in un esercizio
stilistico. Per dirla tutta, messa in terzine anche la “bestia”
dell’apocalisse sembra più mansueta. (B.Pe.)
Storie
n.50 – 2003
***
APOCALISSE
23
Dello
scrittore forlivese Michele Fabbri, ricercatore in filologia
mediolatina all'università di Firenze, ci eravamo già occupati in
Vernice n" 19/20, a pagina 38, in occasione di un commento sul
libro di poesie “Arcadia”, edito da Il Ponte vecchio di Cesena. A
marzo 2003, sempre presso 1o stesso editore, è uscito l'ultimo suo
libro in versi, intitolato “Apocalisse 23”. poemetto che vuole
integrare la nota profezia giovannea, inclusa nel nuovo testamento,
che fino a ieri arrivava fino al capitolo 22, ed ora, dopo 19 secoli
dall'evangelista, trova la sua integrazione ad opera del Nostro.
Appare evidente l’intento ironico del gesto. che non è per nulla
sacrilego,
perché l’ironia è rivolta non contro il cielo, bensì ritorta
contro la terra e, anzi, ancor più giù, trapassa gli inferi, ed è
rivolta alla bestia, al principe delle tenebre, che, dopo la morte di
dio e più ancora in tempi di "pensiero debole" e di una
cultura incapace di concepire 1a sacra visione di dio e di
traguardare verso l'eterno, si trova spodestato dal suo ruolo
blasfemo, ridotto ad essere un povero diavolo, nevrotico, ansioso,
neghittoso, incerto. corroso da mille nevrosi e disgusti. perfino
votato al suicidio. Quella di Michele Fabbri è ovviamente un'ironia
molto seria, essendo i1 diavolo il secondo specchio dell'uomo (il
primo essendo dio), è una parola tenuta sempre ad un passo dalla
tragedia e dal buio della disperazione. Ma ciò accade per precisa
scelta dell'autore e per volontà di promuovere una rappresentazione
teatrale pronunciata dagli alti coturni, e non per altro motivo,
disincantato e consapevole essendo l'autore del trionfo della
letteratura sulla verità, da cui nasce l'orizzonte e il limite della
parola scritta dai poeti. che, evidentemente, non potrà mai arrivare
ad essere Verbo. Nulla di nuovo e nulla di meno sulla comprovata
perizia di gioco ed esercizio di stile con le forme chiuse. aspetto
così ricco e così sostanziale in Michele Fabbri. e di cui già si è
abbondantemente detto nella precedente occasione informativa.
Sandro
Gros Pietro - Vernice n.24/25 – 2003
***
Da
dove nasce la poesia di Michele Fabbri? Nasce dal bisogno, molto
impellente, di mitizzare la propria terra d'origine e cioè la
"enclave" tosco-romagnola e, in particolare, la valle del
Montone. È il 1999 quando esce Trobar
clus,
la raccolta di poesie dove già ci sono tutti i dati caratteristici
della sua personalità. Si tratta, come scriveva il prefatore Davide
Rondoni, “di una mistura di canto e di dura ironia” e, ancora, di
“una vicenda di vita o di morte”. Poi, nel 2001, ecco l'uscita di
Arcadia. Facendo sempre riferimento alla sua Romagna Toscana e alla
sua particolare cultura, con una “operazione da orafo”, come fa
rilevare il critico Roberto Casalini, Fabbri utilizza i metri della
grande tradizione lirica dell'Occidente, dalla sestina al sonetto, ma
ad essi aggiunge l’haiku accostandosi decisamente ai canti
bucolici. Una operazione, questa, in cui il poeta forlivese si sente
parte integrante di un mondo già da tempo scomparso, intendendo per
"mondo" i valori morali e civili a cui tendevano gli Arcadi
nel Sei e Settecento. Egli infatti cerca di tornare ad immergersi nel
"pastorale", e cioè in quelle atmosfere che non risentono
di squilibri, di sbandamenti, di disordini anche se non sono proprio
in
linea con 1o "stato di natura" inteso alla maniera di un
Rousseau. Ancora un paio d'anni ed ecco la terza fatica letteraria
del Nostro: Apocalisse
23.
Oggi
Michele Fabbri è approdato, Oggi Michele Fabbri è approdato, anzi è
sprofondato nel più nero pessimismo. Breve, dunque, il lasso di
tempo, ma lunghissimo il percorso. Fermi restando i suoi dati
caratteristici, e cioè la vivacità della figurazione e gli scatti
moralistici. il poeta s'immerge nel mare di pece e zolfo del "terzo
segno" dell'Apocalisse di San Giovanni per cui ci tiene
ad
aprire la raccolta così: «Poi vidi un'altra bestia che saliva dalla
terra: ella aveva le corna simili a quelle di un agnello, ma parlava
come un dragone». Così, come il credente alla fine del primo secolo
d.C., Fabbri narra infatti gli avvenimenti di oggi come se fossimo
agli ultimi giorni del mondo, un mondo in pieno sfacelo. Si tratta di
una vera e propria catarsi: «Non si sente più nulla / nell'ora
meridiana /dei diavoli che spiano / le mie cattive azioni: / un mondo
inconsistente / si svolge intorno a me». Ma dove fuggire poiché
intorno a lui tutto è laidume e sospetto? «Offesi gli occhi dalle
viste squallide / di una città oscurante e abbandonata, / sparsi i
ricordi sopra la gelata, /
e
tutto è immerso in atmosfere pallide, / mentre ti spiano, da
finestre, callide / menti che prepararono tramata / vendetta». In
una poetica così piena di scandagliatori psicologici Fabbri analizza
certe conformità caratteriali dell' umanità del XXI secolo e 1o fa
alla luce dell'Apocalisse di San Giovanni. Infatti, a proposito della
"società di massa", egli così si esprime: «Si espande
l'abrasione del cervello / e dei tossici il gregge allucinato / si
estende». Pensando, poi, al futuro, c'è da rabbrividire poiché :
«È metastasi orrenda la
mia
vita. / Da solo mi giunge disturbato, / per grande pena mi sento
disperso». Il poeta alla fine giunge a Babilonia e, con lui, anche:
«I popoli la seguono: / grande è l’inganno ordito dalla troia.
Schifo è il vederla all'occhio dei giusti; / grande furore e menti
disastrate».
Luciano
Foglietta
La
Piê, n. 2 – 2004
***
Michele
Fabbri: rime (e sonetti) per il museo dell’Apocalisse
L’impiego
della rima insieme a ritmi armoniosi riproduce nel testo poetico una
serie di equilibri che agevola la lettura di questi versi, così come
equivalenti fomiti di evocazione tradizionale e classica. Michele
Fabbri conferma così un’efficace e intima riscoperta, concede allo
stesso spirito ispirativo tensione e valore di una scrittura che via
via riemerge dopo decenni di sfide sperimentali, di immersioni in
proprio su un linguaggio poetico-altro, ecc. Così, la cognizione
lirica dei versi, chiara denuncia di un proprio principio di
istituzione disquisitiva, diviene oasi di una retorica che era
appunto scomparsa dal contesto dei movimenti che intendevano spingere
più in là l’esperienza inalterata della scrittura in versi. E in
tutto il dire (il lavorio dell’intensa testualità) c’è
sensibilissima materia per la “lamentazione” e “l’ode”, per
i rendiconti di una solitudine mai artefatta e di un discorso (una
catarsi privata del “canto”?) continuo dei tormenti dell’io,
dell’amore e del colore del mondo, delle fasi “antimoderne”
della sua ricerca concisa, grave, naturale, come un’odissea e una
preghiera continua alla realtà che attraversa nell’Adesso i punti
di fuga della cattura canonica. La moralità speculare è tanta, e
ciò che è unitario convoca le parole a farsi senso di una
provocazione innovativa piuttosto che commento manicheo in un’area
deserta o senza ricordi attivi. È una “melodia dell’aldilà” a
conquistare tesi e moniti di cui sono gremiti i versi (non privi di
monotonia e tanto meno di tic onomatopeici), ma anche un ludo
quotidiano in cui sia il fluente rigenerarsi della vita, sia l’incubo
della perdita dell’effimero, segnano contrappunti pensosi non solo
fragranti (la rima dentro aiuta una lenta solennità
espressionistica) ma drammatici, traumatici, quasi frecce critiche in
un contesto di orrenda visualità, e fendenti tutt’altro che vaghi
o liristici di cui liberarsi con il quattordicesimo verso, o in
quartine assidue e dopotutto mai controverse o soltanto
convenzionali. È metastasi orrenda la mia vita./Da solo mi ritiro
disturbato,/per grande pena mi sento disperso:/campo d’energia
psichica disperso./Sensazioni spaesate: l’irrealtà./Fa spavento il
mio vivere sciancato/che teme ogni confronto al mondo ostile,/che
scava le trincee dentro se stesso./Un forte mal di testa mi
distrugge,/mi rovina i pensieri, mi sbeffeggia,/mi costringe
all’assillo di pensare:/il nulla si è dissolto nel mio
nulla,/fuori controllo sono i miei pensieri./Tempo maligno che mi
crolla addosso. (Il futuro, p. 56) Al senso di compiutezza (e di
tardività del metro) si aggiungono un’adeguata percezione della
poesia romagnola ottocentesca, un’istanza autobiografica
corrispondente all’anelito riflessivo continuo, una rettifica di
ciò che Michele Fabbri aveva scorto nelle sillogi precedenti: Trobar
clus
(1999) e Arcadia
(2001). Ma indubbiamente non mancano gli “orientamenti” e le
“epifanie” capitali di un’amara voluttà d’urto concettuale,
e ciò che di inquietante si svolge nel proprio progetto poetico. Va
quindi elusa una privata ed insistente sintomatologia
dell’autopunizione, in cui l’immagine dell’Apocalisse è centro
non aforistico del conflitto metafisico, disquisitivo, allucinato, e
qui denuncia totale dell’esistenza tout-court, nella cui passione
riappare una configurazione del primordiale, dove si assestano
mostri, eventi del Caos, fra “sereni cieli” e altre idre.
Domenico
Cara
***
Apocalisse
23
Singolare
questo libricino di cinquanta poesie dove il rifiuto categorico del
mondo e il senso di schifo nei confronti della vita sono il Leitmotiv
di tutta la raccolta. Singolare per due ordini di motivi. In primo
luogo perché una prospettiva comunemente considerata patologica
viene qui legittimata di fronte alla negatività dell’esistenza («è
male questa pianta che respira,/ è male in ogni anelito di vita»,
da Giardino).
In secondo luogo perché questo contemptus
mundi
viene cantato con una fedeltà alla metrica tradizionale decisamente
rara nel panorama poetico contemporaneo – anche se, va detto,
almeno un paio di endecasillabi non tornano: «e ho schifo
addirittura dei miei adepti» (da Canto
di Lucifero)
e «ricorda i miei ossessivi e grandi mali» (da Orientamenti).
Il
poeta mostra di voler restare chiuso nella propria patologia, nella
sua «stanza senza porte» (da Orientamenti),
di cui elude ogni possibilità di apertura ad una verticalità che
questo disagio sappia sublimare, di modo che i suoi versi si riducano
a un mero lamento continuo. È forse un abbandono la causa che
sprofonda il poeta in questa chiusura (forse consumata in un
manicomio, stando a quanto scrive l’autore), il lutto per la morte
dei genitori, che gli rende impossibile ogni evasione verso il mondo:
«corpi pesanti i genitori morti/ e lamine metalliche le foglie/ che
mi sbattono in faccia. Sono lamine/ di metallo: puniscono il mio
volto/ che osa guardare le cose del mondo» (da I
genitori).
Di detta chiusura sembra un riflesso l’aderenza del dettato poetico
ai metri della tradizione: l’endecasillabo (spesso organizzato in
sonetti) in
primis,
ma anche il settenario, il novenario dattilico («si fanno inquinare
la mente/ e chiedono solo il suicidio», da Intellettuali)
e il decasillabo anapestico («sembra solida, cupa materia:/ malattia
che mi prende col vuoto», da Quello
che resta).
L’utilizzo della forma chiusa, con la sua quasi inevitabile patina
arcaizzante, pare altresì funzionale alla volontà del poeta di
allontanare la sua voce dal proprio tempo, divaricando
l’intercapedine tra un mondo esterno rifiutato e disprezzato
(«rimango chiuso in casa sempre solo,/ rifiuto ogni contatto con
l’esterno», da Beata
(?) solitudine)
e un io lirico che ostende le sue piaghe, a volte compiacendosi della
riluttanza che esse possano suscitare: «la pelle esplode in rosse
ulcerazioni» (da Agonia),
«alla mia fame vorace soltanto// resti di vomito, mio unico lusso,/
riesco a trovare» (da Orientamenti).
Nel
libro viene continuamente riaffermata una prospettiva in cui il poeta
risulta slegato dalle cose, prigioniero di un esilio assoluto che lo
isola da tutto ciò che lo circonda («non lego con nessuna cosa al
mondo», da Distacco),
costringendolo però a vivere nel mondo: «io non mi lascio dietro
che amarezze/ e vani tentativi d’evasione:/ con la certezza di aver
meritato/ l’ergastolo terreno in questo limbo» (da Consuntivo).
Nel
primo sonetto il poeta esprime l’intenzione d’inscrivere il
proprio dramma personale all’interno di una sofferenza universale,
di un’appartenenza della Terra tutta alla sfera del malvagio, del
demoniaco, della negazione totale dei princìpi di bontà e armonia
(«la terra tutta, epifania anticristica», da Preludio;
«cade in rovina quel mondo intontito/ con fine miserabile da servo»,
da Confusioni),
e propone la storia stessa come frutto del Maligno: «il diavolo è
custode di memoria» (da Progresso).
Persino il titolo, Apocalisse
23,
rimanda, col riferimento al libro di San Giovanni, all’idea che i
nostri tempi, «questi tempi ultimi» (da Al
lettore),
precedano una qualche fine del mondo – prospettiva che però,
possiamo dirlo, ultimamente, ci ha anche un po’ stufato. Eppure, la
liaison
tra la sofferenza privata del poeta e quella comune della Terra non
sembra poter sussistere, e l’autore si ritrova solo nel suo dolore,
indifferente al male altrui: «vedo annegare un bambino, ma giro/ la
testa altrove: non può interessarmi» (da Inquietudine).
Quella
affermata in questi versi è una condizione d’isolamento
dall’umanità che però non conosce alcuna redenzione, non è
nobilitata da una qualche rivalsa dell’io sulle forze che lo
dominano, e lascia il poeta eccezionalmente arido e imbelle: «il
tempo che si è svolto come a suora/ di clausura: ma senza la
vittoria// di spirito su carne» (da L’ultima
condizione umana).
L’immobilismo del poeta si configura altresì come impossibilità
di evoluzione del pensiero («e sembra sfilacciarsi moribondo/ il
tentativo di ordire il pensiero/ rimasto troppo a lungo menzognero»
da Attesa),
leggibile anche nella ripetizione momomaniaca dei sintomi del
disagio, sciorinati senza mai auspicare una guarigione o arrischiarsi
a trovare una cura ad una malattia che sembra diventata, in ultima
istanza, l’unico rifugio possibile per il poeta: «adesso mi
raccolgo/ in questo inferno lucido di male,/ nella continua idea
maniacale» (da Atto
di dolore).
Un
libro, diremmo, mistico e apocalittico, che proprio per queste sue
caratteristiche ci piace poco, ma che conserva un’interna coerenza
metrica, stilistica e contenutistica che dà all’opera uno spessore
che la propone come valido esempio odierno di poesia della negatività
– verrebbe da citare un verso dell’autore: «un’opera di buio è
completata» (da Ultime
parole del Cristo ecumenico).
Lorenzo
Franceschini
www.argonline.it
***
Nel
possente regno della frusta
Ci
sono, nelle lunghe notti della ragione, certi iconoclasti in grado di
risvegliarla. Il mezzo che utilizzano, giustificato come al solito
dal proverbiale fine, è la spada. Il loro grido, schiaffo o
sberleffo che sia, scuote (e un po’ violenta) le coscienze
intorpidite, facendole sobbalzare.
Michele
Fabbri è uno di questi. La sua poesia, per quanto metricamente
rigorosa (quartine a rima alternata, terzine impeccabili, brevi
invettive esplosive...) sui temi è in grado di attraversare come una
fiamma un addome così come una mente. Siamo nel campo del nichilismo
totale, della disperazione gridata come sotto tortura, della morte
anelata, dell'anticristo. Le parole sono le più dure dell’intero
vocabolario, quelle più ombrose, quelle che uccidono, quelle
spietate. Eppure, nonostante questo Cioran di Romagna aggredisca, il
suo urlare è quello di chi disperatamente ha amato: la vita, le sue
convulsioni, il suo delirio. C'è in questo vangelo negativo
l’eccesso di una religione, anche se di segno opposto: quindi anche
di una passione incontrollabile, assoluta, decisiva. In fondo, non
c'è un solo grande iconoclasta che, ad esempio, si sia suicidato.
Perché l’odio sparso a piene mani e senza incertezze non è altro
che il violento amore del nero, ma amore.
Detto
questo, e cioè detto che entrando in questo libro ci si inoltra nel
possente regno della frusta, resta da ricordare come lo stile di
Fabbri, così
orientato
al classico,-faccia da supporto impeccabile al teorizzar nervoso
dell’ideologo
apocalittico. Anzi, si può ben sospettare che senza un impianto così
rigoroso, così ammiratamente classico, il magma ribollente delle
idee feroci di Fabbri avrebbe potuto disordinarsi in caos faticoso, e
probabilmente in niente più di una vomitata esistenziale sulla
desolante materia schopenaueriana...Giocando sul cognome dell’autore,
è curioso notare come un fabbro, quindi colui che martella-duramente
su una trave di ferro, sia in grado di dar luogo a un prodotto così
cristallino, impeccabile, dal suono puro. Ma in questo modo non
facciamo che ripeterci: questo è un libro puro, nella sua durezza,
un libro che risveglia. Ben vengano quindi questi grandi stimolatori
degli appisolati attuali, e tutti coloro che punzecchiano e scuotono
e fanno i Giovanni Battista: di loro forse è quel regno dei cieli
che, così inopinatamente, a parole devastano.
Michele
Fabbri, Apocalisse 23, Soc. Ed. Il Ponte Vecchio,2003, pp. 60
Franco
Foschi
TRATTI
n.72 – estate 2006
***
Michele
Fabbri è nato a Forlì nel l967. Non so altro, salvo che ho un suo
libro intitolato Apocalisse
23,
edito dalla Società Editrice Il Ponte Vecchio. Può essere utile
leggersi il passo dell’Apocalisse che Fabbri mette in apertura del
libro, per esempio, dove si dice: “Poi vidi un’altra bestia che
saliva dalla terra: ella aveva corna simili a quelle di un agnello,
ma parlava come un dragone. Essa esercita tutto quanto il potere
della prima bestia, in presenza di lei, e fa sì che la terra adori
la prima bestia, la cui piaga mortale era stata guarita. E fa dei
grandi segni, sino a far discendere dal cielo in terra il fuoco in
presenza degli uomini. Tanto che seduce gli abitanti della terra coi
prodigi che le fu dato di operare davanti alla bestia; persuadendo
gli abitanti della terra ad erigere una statua alla bestia che
ricevette la piaga della spada e visse”. E si potrebbe continuare,
fino a toccare il-nichilismo più assoluto nei versi: “Il mio
fegato è tutto spappolato; / e ho piaghe da decubito al cervello”.
Quello
che resta
Sembra
solida; cupa materia,
malattia
che mi prende col vuoto
alla
testa spolpata da idee
verminate
su un brodo schifoso,
che
diffonde tremendi miasmi,
su
carcasse, rottami e macerie.
Roberto
Carifi
POESIA,
n.210 novembre 2006
***
… In
un contesto in certo modo affine si può inserire l’esperienza
poetica, pur così diversa, e anzi assolutamente particolare,
impossibile da ricondurre a matrici o a correnti ben definite, del
forlivese Michele Fabbri, da Trobar clus (Fermenti, Roma 1999) ad
Arcadia. Carmi bucolici per la Romagna toscana (Il Ponte Vecchio,
Cesena 2001) ad Apocalisse 23 (ivi 2003). In questa poesia, però, e
in particolare nell’ultima raccolta, che in qualche modo proietta
la sua satanica «luce nera», il suo opprimente cono di tenebre e di
annientamento, anche sulle due precedenti, la discesa alle Madri, il
ritorno alle radici e agli archetipi (in questo caso davvero
remotissimi, non solo classici, ma addirittura etruschi e celtici)
paiono tradursi e risolversi non tanto in un recupero di passato, di
identità, di appartenenza, quanto, per così dire, in un itinerarium
mentis in nihil, in un naufragio e una dissoluzione della mente e
della razionalità nelle paludi del più nichilistico “pensiero
debole”, nell’abisso del nulla e dell’insensatezza. «Il nulla
si è dissolto nel mio nulla», dice un verso di Apocalisse: alla
ratio ratiocinans, al “pensiero che pensa se stesso” di una
secolare tradizione di razionalismo occidentale si sono ormai
sostituiti un vuoto, un assurdo e una mancanza di senso che reiterano
e certificano, ossessivamente, senza via di scampo, se stessi, e
nient’altro. «M’illumino di male in luce nera» (folgorante
rovesciamento nichilistico dell’ungarettiano «M’illumino /
d’immenso»); «il nulla che ho vissuto mi è bastato»; «Tutto
diventa scialbo e indefinito, / si confonde ogni cosa su se stessa».
Unità versali, queste – endecasillabi solidissimi e scolpiti,
insistiti, per così dire coatti, spesso ulteriormente rinserrati
nella forma chiusa, e ormai desueta, eccezion fatta per ardue
ricerche sperimentali come quelle dello Zanzotto del Galateo in
bosco, del sonetto –, che sembrano quasi tradurre, nella stessa
dispositio verborum e nello stesso cadere e ripetersi di suoni ed
accenti, l’irredimibile angoscia di una situazione esistenziale, ma
anche storica, epocale, priva di luce e respiro.
Questo
viaggio, questa immersione nel grembo o nella notte del nulla e della
dissoluzione, si trovavano anche in uno splendido testo di Arcadia,
La festa dei morti, in cui il motivo del ritorno dei morti o del
ritorno ai morti, familiare ai lettori della poesia moderna e
contemporanea, da Baudelaire a Pascoli a Montale, era ricondotto ad
una remota e cupa ascendenza celtica: «Poi quella notte vennero i
morti, / muti, guidati dalla dea Litana, / in quella notte a chiedere
conforti. […] // Lontano una campana / conduce le anime verso i
porti / dei vivi, in mezzo alla nebbia padana. / Si consuma, / quella
notte, la morte tra la bruma». Qui la rievocazione del mito celtico,
che sta probabilmente alla base di una radicata tradizione romagnola
di culto dei defunti, si coniuga con l’evidente ripresa di stilemi
della pascoliana Tovaglia («Bada che vengono i morti! / i tristi, i
pallidi morti!»). Il ritorno dei defunti trascina dietro sé la
riesumazione delle spente figure del mito e il recupero del codice,
altrettanto logoro, di un idioma poetico codificato e pietrificato.
E
anche in questo autore la rievocazione del mondo defunto e sepolto
confligge drammaticamente con l’implacabile urgere della
contemporaneità scientistica e tecnicizzata. La «medianica
intuizione / della vita nel passato», propria della coscienza, o
dell’illuminazione, possibili nella dimensione ermeneutica della
storicità, sembrano essere annientate dall’era della Tecnica,
dalla frenetica e frammentaria parcellizzazione delle conoscenze
indotta dal proliferare dei saperi tecnici e specialistici. Il
lettore di Trobar clus non può che «afferrare brandelli / di
umanesimo»; gli esiti della ricerca scientifica sono «cristalli
rotti non più ricomposti». Già l’Eliot dei Chorus from the Rock
si chiedeva dove fosse «la scienza persa nel sapere», e il sapere
«perso in miriadi di conoscenze». L’alternativa, o meglio
l’aporia, pare suggerire il poeta, sembrano porsi, infine, fra due
possibilità ugualmente angoscianti: da un lato la frammentazione
disorientante dello specialismo (la «barbarie dello specialismo»,
come la chiamava già l’Ortega y Gasset della Ribellione delle
masse), dall’altro la suprema e perenne unità, annientante ma
infine, forse, pacificatrice, del nihil aeternum. Non è casuale che
Arcadia rechi in esergo con una preziosa citazione dai Canti orfici
di Dino Campana, poeta profondamente, quasi visceralmente legato alla
matrice tosco-romagnola, e maestro nel proiettare su di un «paesaggio
italiano» miticamente trasfigurato dall’immaginazone visionaria il
proprio allucinato e torturato vissuto. I frammenti dei taccuini e
degli abozzi che costellano e documentano la tormentata gestazione
degli Orfici sembano suggerire proprio un naufragio della mente,
dell’io lirico, nel nulla e nel buio del finale e supremo
obnubilamento: «Se tale a le tue mura la proclina / Anima al nulla
nel suo andar fatale» (Sulle montagne); «volontà e
rappresentazione che del mondo fa la base di un cono luminoso i cui
raggi si concentrano in un punto dell’infinito, del Nulla, in Dio»
(come a suggerire che, infine, in Dio o, indifferentemente, nel
Nulla, o forse in un dio che è nulla, in un nulla che è dio,
l’anima dispersa nelle cose del mondo, sparsa nella casualità
mutevole ed illusoria delle sensazioni, degli eventi, degli incontri,
possa trovare la sola possibile e definitiva pacificazione, la sola
ricomposizione in quiete e in unità)…
Matteo
Veronesi
tratto
da MODERNITÀ E MEMORIA. UNO SGUARDO SULLA POESIA DEL SECONDO
NOVECENTO IN ROMAGNA
in
IL LETTORE DI PROVINCIA n.128 – 2007
***
Il
libro del Diavolo
L’interrogativo
sulla natura del Male è antico come il mondo, ma per la Liturgia
infernale
non vi è alcun dubbio: “Dall’alto dei cieli ci snerva / lo
sguardo di un Dio sconosciuto / (…) Demonio ci spinge a osannare /
il freddo di un male infinito”. (Introito pag. 11). L’origine del
male risiederebbe, dunque, nella percezione di un Dio distratto ed
indifferente: “Il vuoto l’ho sentito troppe volte / ci ho fatto
un’abitudine perversa. / Cerco parole di preghiere stolte, / cerco
parole di preghiera inversa.” (Lamentazione sulla nascita pag. 24);
di un Dio astratto che serve a giustificare l’inadeguatezza della
vita e la fralezza della condizione umana: “La vita è mediocre e
frammentaria. / Così decreta, per autorità, / un’assurda
esistenza che non varia / nella sua norma di infelicità.”
(Lamentazione sulla vita pag. 25). Due divinità di opposta valenza
simbolica si contendono da sempre le redini del comando, finendo per
disarmarsi a vicenda e lasciare il mondo in preda ad un grave vuoto
di potere e a un dolore che pare non conoscere tregua. Piegato dal
grave fardello delle sofferenze, l’uomo da debole creatura diviene
conseguentemente contraltare satanico del biblico Giobbe. Il morbo
malefico
s’impadronisce
a poco a poco del suo corpo, penetrando fatalmente nelle pieghe
dell’animo, inducendolo a rinnegare Dio per spingerlo in un luogo
inferico ed inconoscibile: “Ora mi porto addosso in tutto il corpo
/ le piaghe di una lebbra che mi appesta; / e l’anima malata io
l’accorpo / ai mali della peste che m’infesta.” (Lamentazione
sulla vita pag. 25).
Desta
inevitabile curiosità la pubblicazione di un libro di testi in versi
e prosa che si annunciano come ‘liturgia infernale’. E dal
momento che l’autore cela la propria identità nientepopodimenoche
dietro a quella di Satana, non è difficile incorrere per di più in
qualche luogo comune. L’anonimia, sia essa dettata dalla falsa
modestia dell’autore oppure dall’estremo pudore di un soggetto
infernale, rientra in maniera assonante nel gusto di una materia
demoniaca e seduttiva, di un’atmosfera allucinata e stravolta.
E’
questo un libello indignato dai cui versi soffia un vento di rivolta
contro un dogmatismo asettico e svincolato dalla realtà, che immette
in una condizione esistenziale che non prevede altra via d’uscita
se non la conversione al demonio: “il Diavolo è la guida naturale,
/ in un deserto vuoto d’intenzioni; / col mio silenzio di pietra
tombale / innalzo a lui le mie lamentazioni.” (Lamentazione sulla
morte pag.26). Dopo secoli passati a cercare di esorcizzare il male,
mediante l’esegesi dei testi sacri e l’insegnamento della
dottrina religiosa, sembra essere venuto il momento di accettarne la
presenza. Satana ha buon gioco nel dispiegare, in questo pur breve
excursus letterario, una liturgia in forma parodistica di testi,
inni, salmi e preghiere. La struttura semantica dei versi, che
costituiscono la parte preponderante del libro rispetto alla
scrittura in prosa, non disdegna un recupero dello stile classico,
che è costituito dalla sontuosità metrica e dai virtuosismi di
parola e di rima. L’autore dispiega il proprio verbo in una
variegata scelta di forme, passando dall’impiego degli schemi
formali del sonetto ad un metrica più libera, per finire con un
verso lungo, disteso e prosastico. La sensazione che se ne ricava, a
fine lettura, è quella di un primo drastico svuotamento della
metafora infernale dai suoi contenuti dogmatici ed ideologici, e in
senso lato di una sua riduzione alla dimensione del soggetto.
Satana,
Liturgia
infernale,
Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena, 2008, pp.48
Gian
Paolo Grattarola
***
Poesia
volutamente inattuale, ma non anacronistica né extramondana, si
colloca in rapporto colla realtà per metafore erudite, tra ironia e
disperazione. Michele Fabbri salva veramente poco della realtà che
lo circonda: del resto, ogni poeta sa che non c'è quasi nulla da
salvare al mondo. Ma nemmeno si può pensare di trovare salvezza nel
trobar
clus,
cioè in un’allegoria aspra e chiusa che non fermerebbe comunque la
presenza endemica della realtà e dei suoi veleni. Ecco, allora, che
agli occhi di Michele Fabbri la soluzione può essere quella di
esorcizzare il diavolo, evocandolo apertamente: una gioiosa tragedia!
Poesia della ragione e della forma, splendida nell'espressione
evocatrice di armonie classiche, ma dissacrante per l'erosione
ironica che tutto destabilizza.
Satana,
Liturgia
infernale,
Società Editrice Il Ponte Vecchio, Cesena 2008
Sandro
Gros Pietro - Vernice n.40 – 2009
***
Brigit,
Terra
di Mezzo,
Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 2009, pp.160
Marzio
e Luca Casalini, promotori ed animatori delle edizioni “Il Ponte
Vecchio”, nelle interessanti ed eleganti collane di Storia,
Saggistica, Pedagogia, Poesia, Teatro, Arte ecc., hanno inserito come
corollario alla Saggistica delle pubblicazioni attribuite ad una
Autrice speciale e al di sopra delle vanità che spesso gli
intellettuali del nostro tempo ci mostrano, non concependo affatto la
possibilità di scrivere con anonimato e solo per dovere impersonale.
Brigit,
la dea celtica della profezia e della sapienza, è in senso simbolico
colei che conduce il lettore attraverso una serie di saggi dai
contenuti che vanno dalla storia alla politica, dalla critica del
costume agli interventi occulti massonico-giudaici negli sviluppi
della società moderna. Molti di questi saggi fanno riferimento a
fondamentali pubblicazioni dell’area antagonista e tradizionalista.
Si tratta di un libro ben costruito e di una iniziativa editoriale
utile e intelligente. Utile, perché, con i suoi circa trentacinque
temi, dà un quadro abbastanza chiaro del fermento di idee nella
cultura antagonista; intelligente, perché permette a coloro, specie
ai giovani, che non vogliono addentrarsi in letture più articolate,
di avere una sufficiente e stimolante informazione su autori del
pensiero alternativo. Queste ci sembrano buone ragioni per
consigliarne la lettura.
Paolo
Zagali
HELIODROMOS,
n.22 – 2010
***
Il
Trobar
clus
di Michele Fabbri
Recensione
di Sibilla di Saxatica
Con
una metafora musicale si potrebbe dire che Trobar
clus
è come la polifonia medievale: un primo pionieristico tentativo di
costruire architetture musicali.
Il
XX° secolo letterario si è concluso con la pubblicazione del primo
libro di poesie di Michele Fabbri. Il libro d’esordio di Michele
Fabbri prende nome dal trobar
clus,
il poetare ermetico ed esoterico dei trovatori provenzali. In questo
richiamo alle origini della letteratura moderna europea ci sono i
temi che Fabbri svilupperà nel corso della sua brillante attività
letteraria. Trobar
clus
è una raccolta ancora acerba nella forma e nello stile: il verso
libero si alterna alla metrica tradizionale e i temi spaziano da
topoi
classici della letteratura a percezioni più moderne. Il lettore è
condotto da attese ed epifanie del sacro al canto neostilnovista in
lode della donna, fino all’utilizzo di linguaggi sperimentali quasi
avanguardistici. E, coerentemente col titolo della raccolta, non
mancano echi dell’esoterismo cataro che proprio in Provenza ebbe il
suo centro di diffusione.
Davide
Rondoni, nella prefazione a Trobar
clus,
rileva una certa rigidità espressiva in quest’opera prima del
Fabbri, ma anche le potenzialità di una parola mai banale, sempre
gravida di significato e suscettibile di ulteriori processi di
raffinamento. Il linguaggio lirico del Fabbri è sicuramente una
novità interessante nel mondo letterario, una novità con cui il
mondo culturale si potrà confrontare per trarne spunti fecondi e
innovativi.
Michele
Fabbri, Trobar
clus,
Fermenti Editrice, Roma 1999, pp.32
L’Arcadia
di Michele Fabbri
Recensione
di Sibilla di Saxatica
Con
una metafora musicale si potrebbe dire che Arcadia
è fresco e vivace come un concerto di Vivaldi.
Il
secondo libro di Michele Fabbri, Arcadia,
è un lavoro originale e piacevolissimo, che reinterpreta in chiave
moderna i temi letterari arcadici con risultati di sorprendente
efficacia. L’operazione non è facile e rischia di scadere nel
banale, ma Fabbri riesce a inventare soluzioni interessanti: innanzi
tutto l’utilizzo dell’haiku,
il metro di origine giapponese che è ormai consacrato anche nelle
letterature occidentali come espressione privilegiata per la
descrizione di scene naturalistiche. Agli haiku vengono affiancati i
metri tradizionali italiani, che Fabbri utilizza con la consueta
abilità: dal sonetto alla sestina ai versi sciolti. Arcadia
si caratterizza per un’espressione raffinata che a tratti raggiunge
una musicalità sontuosa.
Il
carattere descrittivo della raccolta affronta i temi tipici della
letteratura arcadica: flora, fauna e pastorelle…
Ma
accanto a questi temi ci sono anche riferimenti a momenti storici e
luoghi caratteristici della subregione Romagna-Toscana, il luogo di
origine del poeta.
Arcadia
è un libro che mostra come generi antichi e apparentemente non più
percorribili possono invece essere riutilizzati con successo, se
proposti in modo opportuno al lettore contemporaneo.
Michele
Fabbri, Arcadia,
Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena 2001, pp.48
Apocalisse
23
Recensione
di Sibilla di Saxatica
Con
una metafora musicale, si potrebbe dire che Apocalisse
23
è un’opera severa e monumentale come una Passione
di Bach.
Pochi
libri hanno segnato un’epoca come Apocalisse
23.
Questa raccolta di liriche di Michele Fabbri cattura l’attenzione
col suo raggio di luce nera che annichilisce i lettori lasciandoli in
una condizione di gelida solitudine e di impietrita commozione.
L’architettura formale del libro è solida e grandiosa: tutti i
testi sono in metrica tradizionale: dal sonetto alla terzina
dantesca, dagli endecasillabi sciolti all’ode saffica…
Il
linguaggio, sempre attento e misurato, inclina a un salmeggiare
austero, a un tono da lamentazione biblica che raggiunge punte di
intensità emotiva raramente riscontrabili nella letteratura
italiana, fino a toni strazianti che trovano l’uguale solo nei
testi di Emil Cioran.
La
lettura di Apocalisse
23
è una vera e propria traversata del deserto, irta di tentazioni
diaboliche, col sole accecante che brucia gli occhi e la sete che non
concede tregua. È difficile immaginare che l’espressione
letteraria possa spingersi oltre il limite estremo segnato da questa
raccolta che ha concluso la vicenda poetica di Michele Fabbri, un
autore che ha segnato una tappa importante della letteratura
contemporanea e che, nonostante la brevità della carriera
letteraria, costituisce un sicuro punto di riferimento per la poesia
contemporanea.
Michele
Fabbri, Apocalisse
23,
Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena 2005, pp.64
Questo brano è un capitolo dell'ebook:
Sibylla de Saxatica
LIBER ORACULORUM
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