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Il canto delle Muse

Cantami, o Diva…

La cultura occidentale esordisce con l’invocazione alla Musa all’inizio dell’Iliade: a partire da questa considerazione possiamo cogliere il senso del saggio che Walter Friedrich Otto pubblicò nel 1954 sul dibattuto tema dell’origine del linguaggio: Le Muse e l’origine divina della parola e del canto.

Lo studio di Otto prende le mosse dalle Ninfe, le creature mitiche che popolavano gli elementi naturali e che provocavano in chi si abbandonava alla contemplazione della natura un terremoto spirituale simile a quello dell’invasamento poetico. Come le Ninfe, anche le Muse rapiscono l’animo dei mortali elevandoli al ruolo di poeti.

Le Muse, dal cui nome deriva quel potente regno dei suoni che chiamiamo “musica”, erano figlie di Zeus e di Mnemosyne. Generate dal Padre degli dèi e dalla madre titanica che simboleggia la memoria, le nove divinità olimpiche davano voce al prodigio del mondo.

La mitologia ha tramandato anche le storie dei figli delle Muse, Lino, Orfeo, Tamiri, Reso, che rappresentavano le diverse modalità espressive del canto e della poesia.

In epoca cristiana, nell’anno 404, un incendio distrusse le statue delle Muse nel Senato di Costantinopoli. Secondo Zosimo, che riporta l’episodio, quello era il segno della profonda diseducazione che stava per sopraggiungere sul genere umano.

Otto ritiene che il mito delle Muse sia la più convincente dimostrazione dell’origine divina del linguaggio, che sarebbe nato innanzi tutto come canto. Infatti il linguaggio può essere un semplice sistema di segnalazione acustica, ma quando si esprime con un canto articolato, come avviene anche in alcune specie animali, il linguaggio presuppone un atteggiamento di autorappresentazione che mette un essere in relazione col mondo: nel canto risuona un sapere vivente.

Come già sosteneva von Humboldt, nella lingua le cose si fanno presenti: esse appaiono alla parola come entità mitiche. A riprova di questo si pensi a tanti concetti astratti che sono nati come personificazioni: l’amore, la libertà, la fedeltà, la vittoria…

E non solo le Muse cantano, ma danzano anche, e nella danza il corpo ritrova interamente se stesso, nell’andamento ritmico che segue la musica.

Le teorie moderne sull’origine del linguaggio parlano di una nascita della parola dovuta a motivi utilitaristici. Ma in realtà ogni lingua umana ha una ricchezza e una capacità di sfumature stupefacenti, e se la lingua dovesse soddisfare solo necessità materiali, basterebbe esprimersi coi versi degli animali.

Proprio per questo i poeti e i musicisti sono i rappresentanti di un parlare assolutamente originale. Un concetto di questo genere esprimeva anche Goethe, quando affermava che ascoltando la musica di Bach gli sembrava di sentire qualcosa di accaduto nel petto di Dio poco prima della creazione del mondo.

Il libro di Otto è ancora una lettura formativa per gli studiosi della classicità e delle discipline linguistiche, anche se per alcuni aspetti il saggio è superato dalla ricerca filologica più recente (ad esempio Otto riporta la vecchia etimologia di Juno Moneta, recentemente chiarificata dal Prof. Jean Haudry).

Una conclusione, quella di Otto, che richiama in qualche modo l’idea heideggeriana del “mettersi in ascolto”: le parole sono un tutt’uno col canto della dea, ovvero l’apertura rivelativa del mondo e del divino.


Walter Friedrich Otto, Le Muse e l’origine divina della parola e del canto, Fazi Editore, Roma 2005, pp.132


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