La
tratta degli schiavi è un evento storico che nella mentalità
corrente rimanda immediatamente alla deportazione degli Africani
verso l’Europa e le Americhe. La tratta dei Negri ha rappresentato
indubbiamente il più vasto fenomeno di schiavitù che la storia
ricordi, ma non è certo l’unico.
Nel
corso dell’età moderna anche i paesi musulmani rapivano schiavi di
colore sulle coste dell’Africa orientale, ma nel Mediterraneo Arabi
e Turchi gestivano un fiorente commercio di schiavi bianchi. D’altra
parte negli stessi paesi cristiani si vendevano schiavi musulmani, ma
con un giro d’affari infinitamente minore di quello che si svolgeva
in Turchia e in Nord Africa.
Uno
studio approfondito sull’argomento è il saggio Christian
Slaves, Muslim Masters
di Robert C. Davis, professore di Storia alla Ohio State University
(Robert
C. Davis, Christian
Slaves, Muslim Masters. White Slavery in the Mediterranean, the
Barbary Coast, and Italy, 1500-1800,
Palgrave Macmillan, Basingstoke New York 2004, pp.260).
Purtroppo
il suo splendido libro, che in buona parte utilizza fonti italiane,
non è nemmeno stato tradotto in Italia: è chiaro che si tratta di
un argomento molto scomodo per la classe dirigente del Belpaese,
interamente votata al suicidio etnico…
Non
è facile avere dei numeri attendibili sul numero di schiavi
catturati dai musulmani fra il 1500 e il 1800: le fonti sono molto
lacunose e frammentarie. I documenti più significativi sono i
registri delle confraternite religiose che avevano per scopo di
raccogliere denaro per riscattare gli schiavi. Inoltre ci sono alcuni
diari di ambasciatori e diplomatici che possono fornire qualche
elemento, e talvolta anche cronache locali o memorie di schiavi
liberati. La tratta di schiavi fu particolarmente vivace nella prima
metà del XVI secolo, anche perché la recente perdita delle province
spagnole aveva innescato un sentimento di revanscismo islamico che
rendeva i pirati particolarmente audaci e motivati nelle loro azioni.
Nel 1571 con la vittoria cristiana a Lepanto le incursioni subiscono
una battuta d’arresto, per poi riattivarsi e divenire più assidue
nel corso del XVII secolo. Nel XVIII secolo il fenomeno tende a
scomparire, salvo una breve recrudescenza tra fine ‘700 e inizio
‘800, poiché il caos creato dalle guerre napoleoniche aveva
offerto nuove occasioni per questo commercio infame. In quest’ultima
fase furono venduti come schiavi perfino alcuni cittadini
statunitensi!
La
tratta dei Bianchi in quei secoli aveva fatto del Mediterraneo un
vero e proprio “mare della paura”, ma questo non era l’unico
teatro operativo dei predoni islamici: le navi degli schiavisti
frequentavano anche l’Atlantico e si spingevano fino alla Manica
dove attaccavano navi di qualsiasi nazionalità, soprattutto inglesi
e olandesi. In una occasione i pirati fecero un’incursione perfino
in Islanda; ma gli Islandesi morirono quasi tutti nel clima
desertico, per cui non si verificarono più attacchi islamici
nell’isola!
Comunque
i paesi più colpiti dalla tratta degli schiavi erano la Spagna,
l’Italia e i paesi slavi. I predoni si spingevano anche
nell’entroterra, nel raggio di una decina di chilometri, tanto che
in Italia alcuni toponimi sono legati alle incursioni saracene. Anche
nel linguaggio quotidiano sono rimaste certe espressioni che
ricordano quegli avvenimenti: “mamma li Turchi”, “Turchi a
mare”, “essere pigliato dai Turchi”…
Davis
ha calcolato che nei 300 anni presi in considerazione circa un
milione di cristiani siano stati ridotti in schiavitù.
Sebbene
persistenti leggende letterarie abbiano tramandato lo stereotipo
della bella odalisca bianca che soddisfa i desideri sessuali di
Sultani e Califfi, in realtà nove schiavi su dieci erano maschi.
Infatti il grande business della tratta era determinato dalla forza
lavoro: il mercato richiedeva muratori, contadini e soprattutto
rematori nelle galee. All’occorrenza comunque donne giovani e belle
potevano essere prede ambite da collocare sul mercato come concubine
per gli harem, ma anche come domestiche per le padrone musulmane.
Esisteva
anche un’altra tipologia di schiavi: quelli buoni per il riscatto.
Si trattava di membri della nobiltà e del clero, per i quali si
potevano chiedere dei riscatti molto alti. Se poi i prigionieri
avevano particolari competenze, potevano convertirsi all’Islam e
integrarsi nella società musulmana: particolarmente ricercati erano
gli ingegneri navali. In certi casi i cristiani rinnegati arrivavano
a posizioni sociali importanti fino a divenire loro stessi
proprietari di schiavi.
La
vita degli schiavi adibiti a lavori di fatica era terribile: non
esisteva alcun tipo di legge che prevedesse un qualche diritto dello
schiavo, e i prigionieri potevano anche essere uccisi, mutilati,
torturati…
La
sorte più orrenda era quella dei rematori: incatenati ai banchi
delle galee, indossavano solo un perizoma e il resto del corpo era in
balia delle intemperie e del sole. Il cibo era scarso, le ore di
sonno erano poche e i rematori erano continuamente tormentati da
pulci, scarafaggi, topi…
Quando
gli uomini morivano, talvolta sotto i colpi della frusta, i loro
cadaveri venivano gettati in mare, e per la mentalità dell’epoca
morire senza i conforti religiosi e senza una degna sepoltura era
un’idea che terrorizzava le coscienze!
Per
questo in certi casi gli stessi padroni permettevano la visita di
sacerdoti, poiché in questo modo gli schiavi si sentivano
rassicurati e “rendevano” meglio nelle prestazioni lavorative.
Gli
schiavi che lavoravano a terra potevano essere rinchiusi in una
prigione pubblica denominata “bagno”. Ad Algeri, Tunisi e Tripoli
c’erano “bagni” di notevoli dimensioni in cui venivano stipati
centinaia di prigionieri. In queste grandi città nordafricane la
percentuale di schiavi poteva arrivare a rappresentare il 20% della
popolazione. Le fonti riferiscono anche di tensioni fra gli stessi
schiavi che potevano sorgere per motivi etnici e soprattutto
religiosi, poiché i prigionieri erano cattolici, protestanti,
ortodossi…
Data
la grande mescolanza di nazionalità rappresentate si verificava la
tendenza a elaborare una “lingua franca” che potesse essere
capita da tutti, almeno per svolgere le operazioni di lavoro.
Ma
le disgrazie dei malcapitati non finivano qui: i dominatori Turchi,
notoriamente inclini alla bisessualità, talvolta usavano i giovani
maschi come giocattoli erotici e li sottoponevano a ogni sorta di
violenze, di abusi e di ricatti sessuali…
L’ultima
parte del libro è dedicata agli antichi stati italiani. L’Italia,
per la sua posizione geografica era particolarmente esposta alle
scorrerie, inoltre attaccare territori dello Stato Pontificio era per
i musulmani un motivo d’orgoglio. I più esposti al rischio di
rapimento erano ovviamente marinai e pescatori, ma anche gruppi di
contadini al lavoro o piccoli villaggi potevano essere attaccati. A
volte i predoni attaccavano con successo grandi città, come Rimini,
oppure installavano basi provvisorie sul territorio, per esempio a
Ischia e a Procida.
Il
rapimento di un padre di famiglia era una tragedia: moglie e figli
rischiavano la fame e l’emarginazione sociale; spesso solo le opere
di carità potevano provvedere a questi individui sfortunati, e
passavano mesi o anni prima che si potesse sapere qualcosa sulla
sorte degli schiavi. Questo poteva accadere solo se arrivava qualche
lettera di informazioni dai religiosi che si occupavano della cura
d’anime degli schiavi e del loro eventuale riscatto. Al di fuori
del riscatto l’unico modo per sperare nella libertà poteva essere
uno scambio di prigionieri, secondo un’abitudine che si tramandava
dai tempi delle Crociate, e nei periodi di guerra fra Impero
Asburgico e Impero Ottomano si formavano grandi masse di prigionieri
da entrambe le parti. Il riscatto degli schiavi era comunque
un’istanza sociale profondamente sentita in tutta la cristianità:
l’ordine religioso maggiormente impegnato nel riscatto degli
schiavi era quello di Santa Maria della Mercede, e non solo gli
ordini religiosi, ma anche gli stati cominciarono a organizzare delle
raccolte fondi a questo scopo. Alla fine del ‘500 Napoli, Venezia e
Genova si erano dotate di organizzazioni per la liberazione degli
schiavi, ma gli sforzi erano sempre insufficienti, e gli schiavi si
sentivano abbandonati dalle rispettive autorità.
Generalmente
la Francia e la Spagna erano gli stati che mostravano di essere
meglio organizzati per il riscatto degli schiavi, ma in media non più
del 3 - 4 % dei prigionieri poteva sperare di essere liberato. Il
riscatto delle donne era molto raro sia perché, come si è visto,
gli schiavi erano quasi sempre maschi, sia perché le donne erano
spesso concubine convertite all’Islam che davano figli ai padroni
musulmani, per cui l’eventuale reintegrazione delle schiave nella
cristianità era ancor più problematica.
La
liberazione degli schiavi era comunque un evento di eccezionale
rilevanza sociale nell’epoca barocca. Quando gli ordini religiosi
riuscivano a riscattare un certo numero di schiavi, organizzavano
solenni processioni con fuochi d’artificio, parate militari e
orchestre che a volte suonavano, quasi per esorcizzare la paura, i
celebri pezzi “alla turca” molto in voga nel ‘600 e nel ‘700.
I
religiosi, soprattutto gesuiti, esaminavano i prigionieri per
verificare eventuali influenze corruttrici dell’Islam, che
rendessero necessario un nuovo catechismo.
Infine
furono proprio le riflessioni sulla schiavitù dei cristiani a dar
luogo a istanze abolizioniste, nonché a nuovi sistemi di relazioni
internazionali.
Recentemente
alcuni paesi africani hanno avanzato richieste di risarcimento agli
stati che in passato deportavano gli schiavi dai loro territori. Se
la cosa può avere un fondamento, non si vede perché analoghe
richieste non debbano essere rivolte ai paesi musulmani che
trafficavano in schiavi cristiani.
E
l’Italia è forse lo stato che più di ogni altro ha pagato sulla
propria pelle la tratta dei Bianchi!
questo brano è tratto dal libro:
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